01. Compléments de la Majeure de Multitudes N° 19

Capitalismo, migrazioni e lotte sociali

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Appunti preliminari a una teoria dell’autonomia delle migrazioniVersion originale italienne complète de art1794 paru dans le numéro 19 de Multitudes.

Ce texte a été publié dans le recueil collectif I confini della libertà. Per un’analisi politica delle migrazioni contemporanee (DeriveApprodi 2004)

Fiet uti nusquam possit consistere finis
Effugiumque fugae prolatet copia semper

Lucrezio, De rerum natura, I, vv. 982 s.

1 Migrazioni [[Il testo rielabora una relazione presentata al convegno internazionale “Indeterminate! Kommunismus”, svoltosi a Francoforte dal 7 al 9 novembre 2003.e capitalismo: tema complesso, si dirà. L’insieme delle problematiche che dovrebbero essere affrontate sotto questo titolo, tanto in prospettiva storica quanto in prospettiva teorica, è anzi tale da far tremare i polsi. Cominciamo dunque con il restringere il campo tematico a cui questo intervento è dedicato. Il contesto generale in cui vorrei collocare il mio ragionamento è quello delineato da una serie di ricerche sulla mobilità del lavoro nel capitalismo storico (cfr. in particolare Moulier Boutang 1998, nonché Mezzadra 2001, cap. 2). Queste ricerche hanno mostrato come il capitalismo stesso sia contraddistinto da una tensione strutturale tra l’insieme delle pratiche soggettive in cui si esprime appunto la mobilità del lavoro, certo da intendere anche come risposte puntuali al continuo travolgimento degli assetti sociali “tradizionali” determinato dallo sviluppo capitalistico, e il tentativo di esercitarne un controllo «dispotico» da parte del capitale, attraverso la fondamentale mediazione dello Stato. Quel che risulta da questa tensione è un dispositivo complesso, a un tempo di valorizzazione e di imbrigliamento della mobilità del lavoro – nonché della specifica forma di soggettività che a quest’ultima corrisponde (cfr. Read 2003, in specie cap. 1). Le migrazioni, in questa prospettiva, costituiscono un campo fondamentale di ricerca: non c’è capitalismo senza migrazioni, si potrebbe dire, e il regime di controllo delle migrazioni (della mobilità del lavoro) che di volta in volta si afferma, in circostanze storiche determinate, costituisce una chiave che consente di ricostruire, da un punto di vista specifico eppure paradigmatico, le forme complessive di sottomissione del lavoro al capitale, offrendo contemporaneamente una prospettiva privilegiata da cui leggere le trasformazioni della composizione di classe. È partendo tra l’altro da questo tipo di ricerche, che in molti, in diversi continenti e spesso indipendentemente gli uni dagli altri, abbiamo cercato in questi anni di sviluppare la tesi dell’autonomia delle migrazioni, intendendo con questa formula indicare l’irriducibilità dei movimenti migratori contemporanei alle “leggi” dell’offerta e della domanda che governano la divisione internazionale del lavoro, nonché l’eccedenza delle pratiche e delle domande soggettive che in essi si esprimono rispetto alle “cause oggettive” che li determinano. Quelle che seguono sono alcune considerazioni preliminari – e assai schematiche – per un approfondimento e una ulteriore precisazione di questa tesi, con particolare riferimento alle conseguenze che ne derivano sotto il profilo teorico-politico: a partire dalla consapevolezza che la crisi, oggi particolarmente evidente sia «se si considerano le richieste degli imprenditori» sia «se si hanno di fronte le motivazioni soggettive dei migranti», della rappresentazione dei movimenti migratori in termini di «flussi» governabili pone infatti una sfida radicale a ogni politica migratoria centrata sul concetto e su una prospettiva di integrazione (Raimondi – Ricciardi 2004, in specie p. 11).

2. Se del resto proviamo a ricostruire brevemente il modo in cui la ricerca internazionale mainstream sulle migrazioni si è sviluppata negli ultimi vent’anni, dobbiamo prima di tutto sottolineare che ormai anche qui l’autonomia delle migrazioni ha trovato un riconoscimento almeno parziale. Scrivono ad esempio Stephen Castles e Mark J. Miller, in The Age of Migration, giunto proprio lo scorso anno alla sua terza edizione e divenuto un “classico”: «le migrazioni possono anche essere caratterizzate da una relativa autonomia, possono cioè svilupparsi in modo indifferente alle politiche dei governi. [… Le politiche ufficiali spesso falliscono i loro obiettivi, e possono anzi determinare effetti opposti a quelli auspicati. È la gente, oltre ai governi, a dar forma alle migrazioni internazionali: le decisioni prese da individui, famiglie e comunità – spesso con informazioni imperfette e con una gamma di opzioni a disposizione estremamente ristretta – giocano un ruolo essenziale nel determinare il processo migratorio» (Castles – Miller 2003, p. 278). I modelli teorici neo-classici (declinati in termini economici e/o demografici), che riconducevano le migrazioni all’azione combinata dei fattori “oggettivi” di push e di pull, sono stati ampiamente criticati, e ben pochi li ripropongono oggi in modo lineare. L’approccio multidisciplinare è la regola, la teoria dei «sistemi migratori» richiama l’attenzione sulla densità storica dei movimenti di popolazione mentre il contributo degli antropologi ha condotto a ricerche di grande interesse etnografico sui nuovi spazi sociali transnazionali in formazione, spesso vere e proprie miniere a cui attingere per la descrizione dei comportamenti e delle pratiche sociali in cui materialmente si esprime l’autonomia delle migrazioni (cfr. Brettell – Hollifield, eds, 2000). L’approccio definito della «new economics of migration» (Massey et al. 1993, Portes 1997), che si è rapidamente imposto come una sorta di nuova ortodossia nel dibattito internazionale, ha sottolineato l’apporto fondamentale delle reti familiari e «comunitarie» nel determinare tutte le fasi del processo migratorio – e ha in particolare dato nuovo impulso a un insieme di ricerche sulle forme «etniche» d’impresa che prendono forma all’interno degli spazi diasporici e trasnanzionali costruiti dalle migrazioni: forme d’impresa in cui proprio le reti familiari e comunitarie procurano il «capitale sociale» che costituisce inizialmente il surrogato del capitale finanziario di cui dispongono le grandi multinazionali (cfr. ad es. Jordan – Düvell 2003, p. 74).

3. Ora, una critica della “nuova ortodossia” che si sta affermando nella ricerca internazionale sulle migrazioni deve a mio giudizio partire dal fatto che, ancora una volta, siamo di fronte a una teoria dell’integrazione sociale nel senso pieno del termine. In primo luogo, secondo modalità classiche nel discorso pubblico statunitense dal cui interno la “nuova ortodossia” è venuta formandosi, essa finisce in buona sostanza per utilizzare il riferimento alle migrazioni come conferma della mobilità sociale verso l’alto che caratterizzerebbe il sistema capitalistico e la stessa cittadinanza statunitense. I processi di esclusione, stigmatizzazione e discriminazione, che sono certo spesso sottolineati con enfasi nella letteratura, figurano in questo quadro come meri effetti collaterali di un capitalismo (e di una cittadinanza) il cui codice fondamentalmente integrativo non viene messo in discussione, e viene anzi considerato come continuamente ricostruito e rafforzato proprio dalle migrazioni (torneremo su questo punto). In secondo luogo, la “nuova ortodossia” opera una sostanziale rimozione delle lotte sociali e politiche dei migranti, che tra l’altro, negli Stati uniti degli ultimi anni, hanno determinato un profondo rinnovamento dello stesso sindacato, riprendendo slancio dopo l’11 settembre e trovando espressione lo scorso autunno in un’iniziativa su scala federale, la «Immigrant Workers Freedom Ride» (cfr. Caffentzis 2003). Nella prospettiva della “nuova ortodossia”, queste lotte sono al più considerate come mere variabili dipendenti di un modello di accesso alla cittadinanza essenzialmente commerciale (Honig 2001, p. 81); della cittadinanza statunitense, al contempo, viene proposta un’immagine unilateralmente espansiva, che non tiene conto né del ruolo costitutivo che nella sua storia ha giocato la dialettica tra inclusione ed esclusione (in particolare attraverso la posizione degli illegal aliens), né della sua gerarchizzazione interna per linee etniche e “razziali”, che ha prodotto vere e proprie figure di alien citizens (cfr. Ngai 2003, in specie pp. 5-9).

4. La tesi dell’autonomia delle migrazioni deve essere dunque ridefinita e calibrata su questo sfondo, da una parte riaffermando il nesso costitutivo tra il movimento sociale dei migranti (con gli elementi appunto di autonomia e di “eccedenza” che ne innervano il profilo soggettivo) e lo sfruttamento del lavoro vivo, dall’altra ponendo in primo piano le lotte dei e delle migranti (Bojadzijev – Karakayali – Tsianos, in questo volume): queste lotte, del resto, dovrebbero essere tenute presenti per le modalità con cui si determinano lungo l’intero arco dell’esperienza migratoria, nonché come termine fondamentale di riferimento per una nuova concettualizzazione del «razzismo», che renda conto del suo continuo ristrutturarsi entro rapporti sociali caratterizzati dalla presenza dei migranti non come mere «vittime» ma appunto come soggetti che esprimono resistenza e pratiche conflittuali innovative (cfr. Bojadzijev 2002). È in ogni caso evidente, e lo abbiamo sempre sottolineato, che le migrazioni non si determinano all’interno di uno spazio vuoto. Non si possono comprendere le migrazioni contemporanee senza tenere in conto le trasformazioni radicali e catastrofiche che sono state determinate dai Programmi di aggiustamento strutturale del FMI in tanti paesi africani negli anni Ottanta, nonché dagli investimenti diretti all’estero delle multinazionali a partire dagli anni Sessanta, con la creazione delle «zone di produzione per l’esportazione» e lo sconvolgimento dell’agricoltura tradizionale (cfr. in particolare Sassen 1988). La tesi dell’autonomia delle migrazioni si tiene a distanza di sicurezza da ogni apologia estetizzante del nomadismo: mentre sottolinea come l’insieme dei fenomeni a cui abbiamo fatto cenno siano stati a loro volta una risposta alle insorgenze sociali e alle domande di cittadinanza che avevano contraddistinto la fase della cosiddetta decolonizzazione, si propone di evidenziare la ricchezza dei comportamenti soggettivi che all’interno di quel campo di esperienza si esprimono nelle migrazioni. Gli elementi di turbolenza che sempre più le contraddistinguono (Papastergiadis 2000) appaiono alla luce della tesi dell’autonomia delle migrazioni come eccedenze strutturali rispetto agli equilibri del “mercato del lavoro”: su questa eccedenza si gioca continuamente la ridefinizione dei dispositivi di sfruttamento, con effetti che si irradiano sull’insieme del lavoro vivo contemporaneo.

5. Quando si parla di un regime globale di governo delle migrazioni (cfr. ad es. Düvell 2002 e il suo saggio in questo volume), intendendo con questa formula denotare un regime strutturalmente ibrido di esercizio della sovranità, alla cui definizione e al cui funzionamento concorrono gli Stati nazionali (in misura sempre meno esclusiva, ma mostrando proprio qui la propria persistenza nello scenario della «globalizzazione»), formazioni “postnazionali” come l’Unione europea, nuovi attori globali come l’«International Organization for Migration» e Organizzazioni non governative dalle finalità “umanitarie”, dobbiamo avere chiaro che si parla di questo. È evidente che questo regime di governo delle migrazioni, nonostante i suoi effetti più immediati siano la fortificazione dei confini e l’affinamento dei dispositivi di detenzione/espulsione, non punta all’esclusione dei migranti, ma piuttosto a mettere a valore, a ricondurre a proporzioni economiche e dunque a sfruttare gli elementi di eccedenza (di autonomia) che caratterizzano i movimenti migratori contemporanei: l’obiettivo, in altre parole, non è certo quello di chiudere ermeticamente i confini dei “paesi ricchi”, è piuttosto quello di stabilire un sistema di dighe, di produrre in ultima istanza, per riprendere la formula proposta da un ricercatore statunitense a noi particolarmente vicino, «un processo attivo di inclusione del lavoro migrante attraverso la sua clandestinizzazione» (De Genova 2002, p. 439). Possiamo leggere in questa chiave l’affermazione di Claude-Valentin Marie, in un rapporto OCSE del 2000, secondo cui il lavoratore immigrato impiegato “clandestinamente” nell’economia informale è per molti aspetti emblematico dell’attuale fase di globalizzazione (Marie 2000). Proviamo a vedere alcuni di questi aspetti, dal nostro punto di vista (che non è quello del rapporto OCSE). Il migrante “clandestino”, possiamo affermare, è la figura soggettiva in cui la massima “flessibilità” del lavoro, presentandosi in prima battuta come comportamento sociale del lavoratore o della lavoratrice, si scontra con l’operare dei più duri dispositivi di controllo (e al limite di negazione) di quella stessa flessibilità. Il punto non è in alcun modo vedere nel «migrante clandestino» una nuova potenziale “avanguardia” nell’insieme della composizione di classe, ma di leggere attraverso questa specifica posizione soggettiva appunto la composizione del lavoro vivo contemporaneo nel suo complesso, caratterizzata – nella sua dimensione tendenzialmente globale – da una diversa alchimia di “flessibilità” (mobilità) e controllo, secondo una scala fortemente diversificata. La stessa categoria di mercato del lavoro, con le segmentazioni che lo contraddistinguono (Piore 1979), mostra intera la sua fragilità (il suo valore men che metaforico) da questo punto di vista, lasciando spazio a una considerazione dell’«incontro» (per riprendere la categoria marxiana) tra forza lavoro e capitale in cui immediatamente, e proprio attorno al governo della mobilità, sono in gioco rapporti di dominio e di sfruttamento. Questi rapporti – con la loro violenza costitutiva – rimescolano continuamente le carte e scompaginano i modellini teorici, mostrando ad esempio, per limitarci a un punto particolarmente importante nella nostra discussione, la contemporaneità di estrazione di plusvalore assoluto e plusvalore relativo, di sussunzione formale e sussunzione reale del lavoro sotto il capitale, di lavoro immateriale e lavoro coatto; portando alla luce il nesso strutturale tra la new economy e le nuove forme di accumulazione originaria con le loro nuove recinzioni.

6. Lo specifico vantaggio della tesi dell’autonomia delle migrazioni consiste dunque nella possibilità che offre di ricostruire un quadro delle trasformazioni del capitalismo contemporaneo dal punto di vista del lavoro vivo e della sua soggettività. Dobbiamo fare, a questo proposito, un passo indietro, e tornare (lo avevamo del resto annunciato) a considerare la “nuova ortodossia” che si è affermata nella ricerca internazionale proprio in uno dei punti in cui sembra concedere maggiore spazio all’“autonomia delle migrazioni”: nella considerazione dell’apporto fondamentale delle reti familiari e comunitarie. Criticando l’immagine astratta dell’individuo razionale come protagonista dei movimenti migratori, a lungo presupposta dall’approccio neo-classico, scrive ad esempio Alejandro Portes: «ridurre ogni cosa al piano individuale significa limitare in modo inaccettabile la ricerca, precludendosi la possibilità di utilizzare come base di analisi e di prognosi unità più complesse, come le famiglie, le reti parentali e le comunità» (Portes 1997, p. 817). Solo in questo secondo modo l’esperienza sociale reale entrerebbe nel campo analitico. Ora, è facile vedere, qui, un preciso parallelo tra la critica sviluppata dalla «new economics of migration» nei confronti dell’economia neo-classica e la critica comunitaria alla teoria liberale. Questo parallelo trova conferma nelle posizioni sostenute a proposito dell’immigrazione da Michael Walzer, secondo cui il principale apporto delle «ondate migratorie» che si indirizzano verso gli Stati uniti consiste proprio nel fatto che i migranti recano in dono alla società d’accoglienza quei correttivi comunitari, quel supplemento affettivo del legame sociale, che lo sviluppo del capitalismo mette continuamente in discussione (cfr. in particolare Walzer 1992). Credo che questo parallelo dovrebbe metterci in guardia dall’utilizzare in modo acritico i riferimenti alle reti familiari e comunitarie. È evidente infatti, ed è stato brillantemente argomentato da Bonnie Honig in un libro importante, Democracy and the Foreigner (2001, pp. 82-86), che l’ispirazione “progressista” di Walzer si presta a essere obliterata senza difficoltà in una serie di discorsi che pongono l’accento sull’importanza che i e le migranti (alcuni e alcune più di altri, ovviamente) possono rivestire nel ristabilire la vigenza di ruoli e codici sociali che sono stati messi in discussione in Occidente dai movimenti degli ultimi decenni. Non sembri un riferimento astratto o poco perspicuo: un intero settore di mercato in fortissima espansione, quello in cui operano le nuove agenzie matrimoniali transnazionali, è nato attorno a una domanda maschile di ri-normalizzazione patriarcale dei ruoli di genere all’interno della famiglia, offrendo «donne docili e affettuose», per cui «le uniche cose che contano sono la famiglia e i desideri del marito» (Honig 2001, p. 89). Ed è inutile dire che la xenofilia nutrita da esotismo e fantasie di una «nuova mascolinità» ben si presta a tradursi in xenofobia di fronte alla scoperta che molte delle donne presentate come «docili e affettuose» sono in realtà interessate solo alla green card, e approfittano della prima occasione per tagliare la corda…

7. Ecco, credo che ancora una volta siano le linee di fuga seguite da queste donne, a cui varrebbe la pena di accostare i comportamenti di tante sex-workers “extra-comunitarie” nell’Europa di Schengen (cfr. Andrijasevic 2004), a offrirci un punto di vista privilegiato per ragionare della soggettività dei e delle migranti. Non si tratta, evidentemente, di operare un recupero dell’economia neo-classica e di pensare il/la migrante attraverso la figurina astratta dell’individuo razionale. La ricerca femminista sulle migrazioni, per il fatto stesso di essersi sviluppata in un campo teorico segnato dalla critica radicale di quella immagine, ha qui, credo, molto da insegnarci (cfr. ad es., tra la letteratura più recente, Ehrenreich – Hochschild, a c. di, 2003). Quella che viene descritta come crescente femminilizzazione delle migrazioni (cfr. ad es. Castles – Miller 2003, p. 9) è del resto uno straordinario campo d’indagine da questo punto di vista. È chiaro che siamo qui di fronte a processi profondamente ambivalenti. In una recente ricerca, analizzando la condizione delle lavoratrici domestiche filippine nelle città di Roma e Los Angeles, Rhacel Salazar Parreñas (2001) ha evidenziato il gioco complesso di fuga dai rapporti patriarcali nel paese d’origine, sostituzione nel lavoro affettivo e di cura delle donne “emancipate” dell’Occidente e riproduzione di condizioni di subordinazione di classe e di genere che è certo caratteristico di buona parte delle migrazioni femminili contemporanee. Probabilmente il discorso potrebbe essere approfondito e precisato se disponessimo di più materiali di ricerca sulle migrazioni femminili all’interno del “Sud globale”, con particolare riferimento ai movimenti di forza lavoro che hanno sostenuto la produttività delle «zone di produzione per l’esportazione». Quel che è certo, tuttavia, è che nelle migrazioni si esprimono processi di disgregazione (nonché, certamente, di continua ricomposizione e “rimessa in gioco”) dei sistemi tradizionali di appartenenza che rendono improponibile – analiticamente e politicamente – l’immagine del migrante che circola ampiamente nella letteratura internazionale sulle migrazioni: ovvero l’immagine del migrante come soggetto “tradizionale”, completamente embedded in reti familiari e comunitarie, di fronte a cui si staglia (per trarne conforto o per esprimere risentimento) l’individuo occidentale. Per riprendere un’immagine lacaniana – ma di cui si potrebbero agevolmente ritrovare gli antecedenti in Marx – il/la migrante è un soggetto «barrato», che vive un rapporto complesso e contraddittorio con l’appartenenza, comunque sia quest’ultima definita. È da questa «barra» (per semplificare: il punto di scontro tra l’azione individuale e le circostanze di tempo e di spazio che la circoscrivono, inscrivendola nel segno di una privazione non risarcibile) che dobbiamo partire per elaborare una lettura politica delle migrazioni contemporanee.

8. Diciamolo subito, a scanso di equivoci: la «barra» non è altro che una metafora, forse neppure particolarmente felice. E occorre maneggiare con cura le metafore, parlando della condizione dei migranti. Abbiamo già fatto cenno, per prenderne le distanze, alla tendenza diffusa, soprattutto negli studi culturali anglosassoni, a produrre, attorno alle migrazioni, apologie disincarnate ed estetizzanti del nomadismo e dello sradicamento. Anche guardando alla posizione assolutamente privilegiata che il riferimento al profugo e al migrante ha assunto nel dibattito filosofico e teorico-politico contemporaneo (da Derrida ad Agamben, da Hardt e Negri a Balibar, per fare soltanto qualche nome), non si può evitare di avvertire di tanto in tanto l’impressione che, nel proliferare delle metafore e delle immagini evocative, vada perduta proprio l’esperienza materiale, sensibile verrebbe da dire, dei e delle migranti, con il suo carico di ambivalenza. Il rischio è, per dirla con il compianto Edward Said, di dimenticare che «l’esilio è qualcosa di singolarmente avvincente a pensarsi, ma di terribile a viversi» (Said 1984, p. 173). A favore dell’uso di un linguaggio metaforico tuttavia, ma anche come salutare monito rispetto ai suoi limiti, si può citare uno straordinario libro e reportage fotografico degli anni Settanta, che si proponeva proprio di illustrare l’esperienza dei lavoratori immigrati. «Il linguaggio della teoria economica», si leggeva in quel libro (A Seventh Man), «è necessariamente astratto. E così, se ci si propone di cogliere le forze che determinano la vita del migrante e di comprenderle come parte del suo destino personale, abbiamo bisogno di una formulazione meno astratta. Abbiamo bisogno di metafore: e le metafore sono temporanee, non sostituiscono la teoria» (Berger – Mohr 1975, p. 41). Abbiamo bisogno di metafore, possiamo aggiungere trent’anni dopo, tanto più in una situazione – quale quella del capitalismo globale contemporaneo, che proprio le migrazioni ci consentono di cogliere in alcuni dei suoi tratti maggiormente innovativi – in cui sembrano essere decisamente saltate le distinzioni tradizionali tra economia, politica e cultura; in cui non è più possibile parlare di sfruttamento e di valorizzazione del capitale senza porsi contemporaneamente il problema di comprendere le trasformazioni della cittadinanza e delle “identità”; in cui non è più possibile parlare di classe operaia senza al tempo stesso rendere conto dell’insieme dei processi di disarticolazione del piano delle appartenenze (processi su cui è impresso il segno indelebile della soggettività del lavoro vivo) che la configurano in modo irreversibile come moltitudine. La condizione dei migranti si pone precisamente nel punto di incrocio di questi processi: e in fondo anche le discussioni filosofiche apparentemente più astratte in cui si è conquistata un posto di primo piano sono dominate dall’urgenza di riflettere su di essi.

9. Vorrei, avviandomi a concludere, richiamare l’attenzione su un problema ulteriore, di definizione politica della condizione dei migranti. In che modo, una volta stabilito il carattere paradigmatico di tale condizione ed evidenziati gli elementi di autonomia, di eccedenza, che innervano le migrazioni contemporanee considerate come movimenti sociali, possiamo e dobbiamo comprendere le lotte dei migranti? In che prospettiva si inscrivono, qui e ora? Per reperire prime, parziali risposte, ma anche per indicare i limiti della nostra immaginazione politica, vorrei riferirmi a due libri, scelti perché li considero tra i più importanti contributi ai dibattiti teorico-politici degli ultimi anni: La Mésentente, di Jacques Rancière e il già citato Democracy and the Foreigner, di Bonnie Honig. Le linee generali del ragionamento di Rancière sono note, e si possono quindi brutalmente semplificare: la politica esiste soltanto come soggettivazione di parte che scompagina, riattivando «la contingenza dell’uguaglianza, né aritmetica né geometrica, tra tutti gli esseri dotati di linguaggio», il «conto delle parti» (l’architettura distributiva) su cui poggia quella che Rancière stesso, sulla scorta di Foucault, definisce polizia (Rancière 1995, pp. 50 s.). È difficile resistere alla tentazione di leggere il riferimento alla «parte dei senza-parte», attorno a cui ruota l’intero ragionamento di Rancière, attraverso le lotte dei sans-papiers del 1996, l’anno successivo alla pubblicazione di La Mésentente. È lo stesso Rancière, del resto ad autorizzare questa lettura, sottolineando come gli «immigrati» fossero un soggetto relativamente nuovo in Francia, per la semplice ragione che vent’anni prima si sarebbero chiamati «lavoratori immigrati», e avevano dunque una parte precisa nel meccanismo distributivo di un regime determinato (fordista, potrebbe aggiungere qualcuno) di «polizia» (cfr. ivi, pp. 161 s.): divenuti senza parte, gli immigrati (o i migranti, come preferiamo dire) si avviavano a essere i candidati “naturali” per quel ruolo di «parte dei senza parte» dalla cui soggettivazione soltanto, come in età moderna hanno mostrato in particolare le lotte proletarie e le lotte delle donne, può derivare l’azione politica – e dunque la reinvenzione dell’universale. Il ragionamento di Bonnie Honig ripete per l’essenziale, sia pure all’interno di un diverso quadro analitico, quello di Rancière: criticando in modo assai convincente l’omologia tra l’immagine – «xenofila» – dello straniero come soggetto che ha qualcosa da dare e l’immagine – «xenofoba» – dello straniero come soggetto interessato a «prendere» qualcosa dalla società in cui si stabilisce, Honig, con una mossa indubbiamente affascinante, propone di rovesciare i termini, e di provare a pensare «proprio questo “prendere” come ciò che i migranti hanno da darci» (Honig 2001, p. 99). Le pratiche in cui secondo Honig si esprime la cittadinanza dei migranti (anche in condizioni di radicale esclusione dalla cittadinanza codificata giuridicamente), in altri termini, metterebbero strutturalmente in discussione il fondamento della democrazia; e ne riaprirebbero il movimento oltre la sua configurazione istituzionale, in direzione di un approfondimento e di una riqualificazione tanto in senso intensivo quanto in senso estensivo (oltre, cioè, i confini dello Stato nazionale). Il riferimento a Rancière è esplicito, entro una concezione della politica in cui sono le rivendicazioni di coloro che non rientrano nel «conto» dei regimi di «polizia» a promuovere il sorgere di «nuovi diritti, nuovi poteri, nuove visioni» (ivi, p. 101).

10. Fermiamoci un attimo a considerare l’immagine della «comunità politica» che così prende forma: la comunità politica, scrive Rancière, «è una comunità di interruzioni, di fratture, puntuali e locali, attraverso le quali la logica egualitaria separa la comunità della “polizia” da sé stessa» (Rancière 1995, p. 186). Si vede bene, mi pare, che siamo qui di fronte a una teoria che può essere definita della «democrazia radicale», nel senso che l’insorgenza politica della parte dei senza-parte è pensata come momento di disarticolazione di un regime specifico di «polizia», di apertura, che non può tuttavia che mettere capo a un altro regime di «polizia», con le sue parti e con la sua «parte dei senza-parte». Sia chiaro: il punto non è quello di schiacciare il lavoro di Rancière sull’opera che ha dato inizio al dibattito sulla democrazia radicale, notoriamente quella di Ernesto Laclau e Chantal Mouffe, Hegemony and Socialist Strategy. Towards a Radical Democratic Politics, la cui prima edizione risale al 1985. Il libro di Rancière è a mio parere infinitamente più ricco e interessante, in primo luogo perché pone il problema della produzione della democrazia e non assume quest’ultima, come fanno Laclau e Mouffe sulla base della loro reinterpretazione del concetto di egemonia, come qualcosa di dato, in ultima istanza coincidente con la generalità dell’«articolazione» politica che si contrappone al carattere strutturalmente «parziale» delle singole lotte sociali (cfr. Laclau – Mouffe 1985, in specie p. 169). Se tuttavia un “merito” va riconosciuto a Laclau e Mouffe è precisamente quello di avere anticipato una costellazione di problemi destinata a segnare un lungo ciclo storico. È il movimento globale degli ultimi anni nel suo complesso ad avere inscritto la propria azione all’interno di un campo di riferimenti che in senso lato può essere definito democratico-radicale – e la “naturalezza” con cui questo movimento ha parlato il linguaggio dei diritti ne è a mio giudizio una chiara illustrazione. Anche le proposte teoriche più interessanti emerse negli ultimi anni (da quella di Hardt e Negri a quella di Holloway, per citarne due per molti aspetti assai distanti tra loro) innovano profondamente il quadro, lo forzano, ma non offrono effettive alternative a una prospettiva di approfondimento (intensivo ed estensivo, come si è visto con Honig) della democrazia. Per tornare ai migranti, sia la ricerca di Étienne Balibar sia le nostre stesse pratiche politiche e teoriche si sono mosse sostanzialmente all’interno dello stesso scenario.

11. Ora, il problema, a questo riguardo, non è solamente la natura per così dire contro-fattuale di questi discorsi sulla democrazia (nel senso che l’evoluzione delle democrazie reali è proceduta in questi anni in tutt’altra direzione…). Si tratta di capire, senza ricadere in dogmi e certezze che è bene consegnare senza rimpianti al passato, se è possibile tornare a immaginare una discontinuità nella storia politica della democrazia moderna, una rottura nella continuità del dominio e dello sfruttamento su cui poggia il modo di produzione capitalistico. Era questo, in fondo, il marxiano «sogno di una cosa», la rivoluzione, il comunismo. Non si tratta di tornare a giocare il comunismo contro la democrazia (comunque definita): abbiamo imparato a distinguere – ed è un punto che spesso sembra perdere di vista Slavoj Zizek, che ha comunque avuto il merito di richiamare l’attenzione sull’ordine di problemi che stiamo discutendo (cfr. da ultimo Zizek 2004, pp. 183-213) – la democrazia come sistema istituzionale di equilibro (come forma di governo, nei termini classici) e la democrazia come movimento, capace di articolare politicamente un insieme di istanze soggettive che eccedono sia la codificazione istituzionale della cittadinanza sia la trama delle relazioni mercantili. Lette insieme, la crisi dei sistemi di welfare nell’Europa occidentale e quella del «socialismo reale» ci mostrano proprio questa sconnessione (cfr. Piccinini 2003). Il punto è, tuttavia, che tra democrazia come forma di governo e democrazia come movimento deve pur determinarsi un rapporto, e questo rapporto, nelle logiche della democrazia, non è pensabile altrimenti che nelle forme dell’equivalenza (del «conto delle parti», nel lessico di Rancière): per restare al nostro argomento, gli elementi di eccedenza e di autonomia che contraddistinguono le migrazioni contemporanee non possono trovare riconoscimento, nella prospettiva della democrazia radicale, se non attraverso una mediazione con l’insieme delle proporzioni su cui si fonda la finzione del mercato del lavoro, ma senza poterne mettere in discussione la violenza costitutiva. Detto in altri termini: quel che qui si palesa, e che è stato tra l’altro ben evidenziato dalle vicissitudini e in ultima istanza dallo scacco del «marxismo analitico», è l’irriducibilità dello sfruttamento a qualsivoglia teoria della giustizia. Possiamo allora, forse, convenire provvisoriamente su un’ennesima metafora: il comunismo è oggi pensabile come il supplemento della democrazia radicale, interno al suo orizzonte ma irriducibile alle sue logiche, come indicazione dei limiti del movimento democratico e del campo di possibilità politiche che da quest’ultimo viene strutturalmente escluso. In questa direzione mi pare che si stia muovendo il nostro lavoro sull’autonomia delle migrazioni, nella misura in cui porta alla luce la ricca trama soggettiva di istanze che, nelle migrazioni contemporanee, si esprimono in forme non riconducibili alla dialettica del riconoscimento democratico.

Riferimenti bibliografici

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