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Ho iniziato nel 1996 a ragionare intorno a donne e globalizzazione, visto che tutte le migliaia di pagine che copiosamente si scrivevano intorno alle ristrutturazioni economiche, ai cambiamenti sociali e politici degli ultimi decenni del secolo XX mi sembravano assolutamente silenziose sulla questione. Ovviamente non cercavo solo numeri, statistiche, ma di capire dove stavano le donne e perché. Finalmente negli ultimissimi anni anche le donne hanno iniziato a sentire che forse c’è qualcosa da dire al riguardo e sempre di più intervengono e stimolano discussioni in proposito.
Allora, nel 1996, studiavo in Inghilterra e avevo il vantaggio di osservare processi economici e sociali molto più avanzati rispetto a quelli italiani: io stessa, oltre a studiare, lavoravo per una ONG, tenevo lezioni all’università, facevo le pulizie in un college, badavo per conto di un’agenzia a una decina di vecchietti a domicilio e aiutavo a distribuire il pranzo ai pargoli dell’asilo del campus. Questo era il mio modesto, frammentato, ma assai istruttivo osservatorio; nasceva da esigenze molto materiali di sopravvivenza (pagare l’affitto, il vitto e i costosissimi spostamenti); scoprii poi che era un contesto-chiave per far luce su quel che andavo indagando per ragioni accademiche. Le colleghe (parlo al femminile perché non ricordo uomini) che incrociavo timbrando il cartellino al college o nelle case dei vecchietti erano madri di famiglia, spesso migranti, e avevano a loro volta dai tre ai cinque diversi lavori. Di quelle invece collocate nei lavori “migliori” (ONG, università) posso solo dire che avevano orari di lavoro incredibili. Questo elemento mi convinse a non fermarmi in Inghilterra dove mi vedevo in un futuro lavorativo magari brillante, stimolante, irraggiungibile in Italia a 25 anni, ma che non lasciava spazio a nient’altro.
Fu in quei mesi e in quel contesto che mi si andò chiarendo l’idea che quella cosa che genericamente si chiama “globalizzazione” era un’insieme di meccanismi economici di messa a lavoro della vita, di penetrazione delle regole di mercato (la concorrenza, la domanda e l’offerta, la creazione di profitto) fin dentro le relazioni, il tempo quotidiano. Per riproduzione resa produttiva intendo proprio questo: oggi nel mondo in vari modi i processi che hanno a che fare con la riproduzione degli esseri umani in senso biologico, culturale e relazionale vengono piegati a produrre denaro, a farlo circolare, servono alla riproduzione del capitale in modo diretto.[[Indirettamente è stato così anche per il capitalismo industriale del secolo scorso nel quale il lavoro riproduttivo svolto dalle mogli casalinghe in modo gratuito permetteva al capitale di non pagare all’operaio i suoi costi di riproduzione, ma solo il prezzo della prestazione lavorativa: il ruolo assegnato ai due generi era quindi assolutamente correlato e funzionale alla produzione di profitto. Oggi produzione e riproduzione stanno modificando i loro confini, mescolando i loro campi, si stanno ristrutturando per continuare a realizzare la legge del capitale.
Questo ha comportato la trasformazione dell’essenza stessa del lavoro, soprattutto per quanto riguarda i nostri Paesi ex-industrializzati nei quali la produzione diventa fondamentalmente fornitura di servizi, ha a che fare con l’accudimento di clienti verso i quali bisogna essere oltremodo disponibili e compiacenti, pena la diminuzione dei profitti, il fallimento nella lotta per la concorrenza. Ancora: la riproduzione diviene produttiva attraverso la collocazione sul mercato di una serie di attività di riproduzione un tempo svolte prevalentemente da donne nel privato in modo gratuito (l’assistenza a familiari, l’ascolto, la conversazione, l’orientamento, il lavoro domestico, la cura del corpo, la relazione sessuale). Questa esternalizzazione in realtà non modifica sostanzialmente l’invisibilità di tali attività che sebbene svolte in un ambito pubblico segnato da “contratti”, restano però occultate in mille modi: per gli spazi (il chiuso delle case, le linee telefoniche, i non luoghi), per i momenti in cui si svolgono (alcuni la notte), per l’assenza di contratti corretti e comunque spesso “privati” fra datore/trice di lavoro e lavoratore/trice, per il fatto di essere svolti da persone cui viene negato lo status di cittadini.
Queste trasformazioni stanno richiedendo nuova forza lavoro, stanno esigendo spostamenti rilevanti di persone, sono in grande misura il motore delle attuali migrazioni, combinandosi a meraviglia con fenomeni espulsivi dei Paesi di provenienza (crisi economiche e sociali, situazioni di violenza generalizzata).
È interessante osservare come chi ha descritto grandi rivolgimenti nel campo della produzione (il passaggio dal fordismo al postfordismo, la fine della fabbrica, la delocalizzazione della produzione nei Paesi del Sud del mondo) non abbia pensato che tutto ciò avrebbe necessariamente significato una rivoluzione anche nel campo della riproduzione, dal momento che produzione e riproduzione sono i due ambiti interrelati, storicamente definiti, nei quali il capitale gerarchizza e organizza le attività umane al fine della sua riproduzione. Per cambiamenti nel campo della riproduzione non intendo solo i cambiamenti che stanno avvenendo nella riproduzione biologica (per esempio le nuove tecnologie riproduttive che modificano la modalità di venire al mondo e non sono semplici terapie contro la sterilità o l’impotenza) o cambiamenti organizzativi (attività che da gratuite divengono a pagamento) o nuovi canali e nuovi attori che entrano in gioco, ma anche trasformazioni culturali, simboliche: che significa per esempio che una società delega la sua riproduzione, la cura verso bambini ed anziani, a persone di altre culture? Sappiamo che riproduzione non è solo mantenimento di corpi, risposta a necessità materiali, ma è l’ambito nel quale si creano i significati, le identità personali e sociali. Gli xenofobi di casa nostra, favorevoli ad affidare genitori e figli a uomini e donne immigrati, disprezzati ma utili, non se lo immaginano. E questo è esattamente il processo attraverso cui si forma una società meticcia, perché oggi l’accompagnamento alla vita o alla morte viene fatto in moltissimi casi con linguaggi affettivi e culturali diversi da quelli fino a ieri consueti per gli accompagnati. Ma anche per noi che in questo vediamo qualcosa di arricchente e normale nell’evoluzione dell’umanità, c’è poco da esultare, perché società meticce di questo tipo sono anche società coloniali, società dove vige la segregazione, dove le persone vengono usate a seconda delle esigenze di chi assume e comanda (come la legge Bossi-Fini magnificamente esemplifica). Potrebbe avere qualche chance di risalita chi smetterà di essere “diverso”. E qua forse si scoprirebbe che nella diversità ben poco conta il colore della pelle, quanto invece il possedere o meno illimitata capacità di consumo, traguardo che non è comunque certo facile da conquistarsi quando si è cittadini di seconda classe.
Guardando ai Paesi di nuova industrializzazione bisognerebbe osservare i processi che hanno preceduto la delocalizzazione e che l’hanno resa possibile e sostenuta: nei vari Paesi con modalità diverse sono avvenuti processi di destrutturazione sociale ed economica che hanno eliminato l’economia di sussistenza di tipo agricolo che vi dominava e hanno favorito la creazione di masse di uomini e donne diseredati, senza più legami con contesti comunitari e senza più risorse su cui contare, disponibili quindi ad essere impiegati a qualsiasi condizione e a qualsiasi salario dalle nuove fabbriche (resi anche loro direttamente funzionali alla riproduzione del capitale globale). In alcuni casi sono state guerre a bassa intensità o guerre civili, in altri l’intervento di multinazionali o grandi imprenditori locali che hanno occupato terre abitate da secoli da comunità senza titoli di proprietà, reclamandole per sé al fine di sfruttarne il legname o di impiantarvi piantagioni o pascoli per allevamento; altrove è stato l’insediamento di basi militari straniere a distruggere in un ampio raggio il tessuto economico e sociale rendendolo dipendente dalle esigenze dei militari (facendo fiorire in primis l’aggressivo “mercato” dei corpi femminili). L’economia di sussistenza è agli occhi del mercato improduttiva e diseducativa, per non dire eretica: mostra che la riproduzione di una società non necessariamente passa dalla sottomissione alle merci e dallo sfruttamento intensivo di ogni relazione (con le persone e l’ambiente), che non è necessario avere e nemmeno desiderare sempre di più. È un modello culturale opposto a quello consumista, alle sue relazioni di sfruttamento, al suo meccanismo della crescita, modello nel quale il bisogno della merce vince anche sullo stimolo della fame (basti pensare a situazioni riscontrabili in tutti i Paesi a povertà diffusa dove non si arriva a mangiare più di una volta al giorno, ma si comprano a rate televisione o stereo). Guarda caso nell’economia di sussistenza, che ha a che fare con la rigenerazione di spazi vitali per intere comunità, le donne hanno un ruolo centrale e competenze specifiche per la preservazione e distribuzione delle risorse. Distrutti questi contesti, masse di persone si affollano nelle città, trasformate in proletari dal punto di vista economico e in consumatori compulsivi dal punto di vista culturale, per lo meno come aspirazione se non ne hanno materialmente la possibilità.[[Bisognerebbe ragionare sull’eccezionale vittoria del capitalismo rappresentata da un povero che evita di mangiare più di una volta al giorno per pagare le rate dell’ultimo televisore acquistato, come io stessa ho constatato in alcune situazioni nel Terzo Mondo: questo sistema è riuscito a catturare perfino uno che non avrebbe nemmeno i soldi per campare (quindi un non-consumatore) e riesce invece a fargli spendere soldi, che non ha, in una merce costosa! Stiamo parlando qui di un modello di essere umano, di uno schema mentale e culturale che ha vinto, è diventato dominante ed interviene e stravolge addirittura l’esigenza basilare del cibo quotidiano, messo in secondo piano rispetto al bisogno dell’oggetto tecnologico o del prodotto industriale che diventa il bisogno primario. Se non arriviamo a mettere in discussione quel modello antropologico (nel quale siamo dentro fino in fondo anche noi) non ci sarà lotta che avrà senso. Del resto chiediamoci cos’è diventata per esempio la povertà in questo contesto. È davvero la povertà la questione oggi o non c’è qualcosa di ancor più grave che ha inghiottito la povertà, l’ha trasformata radicalmente, le ha cambiato i connotati, rendendola incredibilmente più complessa della mera difficoltà di arrivare alla fine della giornata? Qualcosa che ha a che fare con il trionfo del capitale, dei suoi valori, qualcosa di radicalmente opposto alla vita, alla felicità per tutti, qualcosa che preannuncia un controllo davvero pervasivo su tutti, anche su quei miliardi di persone che stanno fuori, che non entreranno mai nel benessere, ma che anelano solo a quello? Mettere nella testa della gente certe priorità la fa letteralmente morire di fame, oltre che di senso di inferiorità: la gente si sente povera perché di quei beni non ne possiede mai quanti ne vorrebbe e deve sentirsi tale per aspirare a cercarne di più. Se ha da lottare per qualcosa sarà per conquistarsi un po’ di più di quei beni, mettendo tutto il resto in secondo piano (quanto è cruciale la lotta per la dignità!). Alla luce di tutto ciò bisogna davvero ripensare gli obiettivi della lotta per la trasformazione e i passi da fare qui come altrove. In questo senso mi sembra sensato dire che il campo dove analizzare e praticare il conflitto non sia più tanto il campo del lavoro, ma quello del consumo.
Le donne sono oggi però anche i principali attori in tutte le trasformazioni economiche dei Paesi del Sud: migranti economiche e rifugiate a causa di guerre e conflitti, operaie nelle fabbriche delocalizzate, operaie nelle piantagioni che garantiscono il sistema dell’approvvigionamento continuo di frutta e verdura per i nostri Paesi che prescinde dalle stagioni spostando le produzioni in giro per il pianeta a seconda delle stagioni. È da loro infatti che si può estrarre il profitto più alto: perché sono già addestrate all’interno della famiglia, perché sono più precise, sono anche più ricattabili dal momento che da loro dipende la vita di svariati altri esseri umani (non certo dai loro compagni spesso assenti, disperati, volubili), perché posseggono infine quella merce oggi preziosa che è la capacità relazionale della quale fa parte anche una sessualità socialmente costruita come alienabile e vendibile anche fino a morirne.
Ecco come la riproduzione mostra tutta la sua centralità nelle trasformazioni odierne: distrutta se autonoma dal circuito delle merci, distrutta come condizione per trasformare la rigenerazione della vita in un circuito che produca denaro, rifiutata dalle donne del Nord ed esternalizzata invece che essere condivisa, spartita (fra generi, fra classi d’età, attraverso organizzazioni collettive), appaltata alle donne del Sud non solo perché “a loro piace”, perché “ne hanno bisogno”, ma perché a noi fa schifo e ci toglie libertà. E di questo bisogna pur arrivare a parlare! Bisogna auto-osservarci e qualche interrogativo porcelo, guardando le nuove gerarchie fra donne proprio intorno al tema della riproduzione, per cui l’emancipazione di alcune, intesa come liberazione dai vincoli che sulle donne hanno sempre pesato, avviene a scapito della subordinazione di altre, chiuse dentro relazioni e mansioni sottopagate, degradanti perché si realizzano di fatto in un contesto che nega l’accesso ai diritti di cittadinanza, senza spazio per la propria vita, le proprie famiglie, con forti restrizioni alla propria libertà.
Ha senso continuare a credere in idee come emancipazione e libertà incapaci di tenere in conto le conseguenze di esse per altri e altre? Probabilmente vanno ripensate. E d’altra parte ha senso farsi carico in questo modo dei processi di depauperamento creati in giro per il mondo da questo sistema economico che spingono masse di persone a cercare lavoro a migliaia di chilometri di distanza da casa loro con costi umani e sociali elevatissimi? Sicuramente quello che è da fare è tenere insieme Nord e Sud del mondo, trasformazioni e processi che avvengono qui e che avvengono là, perché il pericolo principale nella complessità di oggi è lo strabismo: culture diverse, ma anche collocazioni diverse, in diversi punti delle reti che avvolgono il mondo ci fanno vedere prospettive davvero inimmaginabili per capire il presente e per pensare il futuro. In questo senso i tentativi di confronto e scambio fra donne native e migranti, fra partecipanti dei movimenti del Sud e attiviste del Nord, fra produttrici del commercio equo del Sud e consumatrici critiche del Nord sono tutte occasioni importantissime per ricostruire senso, ripensare idee e sogni, inventare e mutuare reciprocamente forme di lotta.
Negli ultimi anni è in questo quadro che mi sono sforzata di pensare e praticare il cambiamento, imparando che è davvero difficile pensare un’alternativa alla miseria, alla supremazia maschile, all’aggressione alla natura che non sia anche fuoriuscita dal sistema della crescita incessante del capitale. Detto in altri termini è la necessità di passare dalla priorità data alla produzione e all’economia come esclusiva produzione di profitti (che ha inglobato anche la riproduzione) alla priorità e visibilità per la riproduzione, i processi materiali, affettivi, culturali, psicologici, simbolici attraverso i quali la vita umana si rigenera, perché questa è l’unica e la reale base del funzionamento delle società. Al centro di questa economia non sta più la rigenerazione del denaro, ma delle condizioni di vita, della capacità relazionale, perché solo nella relazione (con se stessi, con gli altri, con l’ambiente, con il processo storico) ci si ricrea.
Ora capisco e connetto una serie di scelte fatte negli anni passati per caso, per istinto, per piacere direi: mi sono andata a collocare in Sicilia, luogo geografico, storico e culturale del meticciamento, scappando dalla grande libertà che sentivo in Inghilterra (dove sembra di essere al centro del mondo, degli eventi che contano, e dove nessuno ti romperebbe le scatole qualsiasi cosa facessi) alla “costrizione” sicula, terra tremendamente lontana da tutto (12 ore di treno per arrivare a Napoli e 23 per arrivare a Milano), dove il controllo sociale esiste ancora e ti “tiene” sempre, terra forte, mai anonima o irrilevante. Qui vi ho fatto la mia esperienza del limite e del radicamento.
Mi sono anche trovata a inventare insieme a tre carissime amiche e ad un amico un contesto lavorativo (e non solo): una piccola cooperativa che si chiama Daera, nella quale facciamo vivere le vitali relazioni che ci uniscono, il nostro spazio collettivo, perché sentiamo come imprescindibile pensare e fare insieme, tenere insieme affetti, bambini, passeggiate, pranzi e cene, lavoro, professionalità, sperimentazione. E sentiamo anche come imprescindibile continuare a vivere in un posto che ancora migliaia di persone abbandonano, perché a volte davvero non ne puoi più della superficialità, dell’ambiguità, della bruttezza e dello squallore dell’abusivismo, della violenza che cancella dignità e bellezza, della fatica di affermare un diritto senza invocarlo come un favore. Ma noi restiamo per tutto il resto (che non è poco).
Infine la scelta di un campo, il quotidiano, nel quale sperimentare il senso della politica, la prassi della trasformazione, qui e ora: mi interessa cambiare, anzi è il senso della mia vita, costitutivo della mia identità, perché tutto quello che ho descritto sopra mi è insopportabile, e io mi posso permettere di dire che lo è per la mia coscienza, ma so quanto male faccia invece nella carne e nel cuore di tanti compagni e compagne che conosco e che si trovano a vivere in altre terre. Se cambiare è ciò che mi fa alzare al mattino non posso aspettare di farlo quando lo Stato sarà diverso, il governo migliore, quando ci saranno 30 famiglie che condividono tutto ciò (come tanti sostengono dicendo: “ma ci vorrebbe…”, “ma avrebbe più senso se…”, “ma per incidere è necessario…”): non posso rimandare, non per impazienza o avventatezza, ma perché voglio che la mia vita inizi ad essere felice adesso.
È davvero una questione di felicità: nessun cambiamento fatto per senso del dovere o per salvarsi l’anima, per razionale convinzione sostenuta da una pregante analisi o da altre motivazioni di questo genere può resistere nel tempo, può contagiare veramente altri, può essere efficace. Cambiamo solo se ci piace quello che stiamo sperimentando, se scopriamo qualcosa di nuovo che, chiusi dentro il vecchio comportamento, nemmeno immaginavamo. E la strada è davvero una discesa a rotta di collo, nel senso che più si avanza più diventa urgente cambiare ancora.
Sto parlando di consumi, di uso del tempo, di sottrazione ai circuiti di mercato di attività che vi erano state inglobate. Cosa cambia a comportarsi così? Cambia forse il mondo? Ma d’altra parte qualcuno può dimostrare che cambiare il mondo sia qualcosa di diverso da cambiare questo micro-livello personale? Qualcuno ha ottenuto efficaci e verificabili trasformazioni in un altro modo verso la direzione che intendiamo? Trasformazioni d’altro tipo sì si possono ottenere con la potenza, la dirompente forza delle dimensioni di scala, le grandi decisioni e dichiarazioni. Ma queste trasformazioni che ci interessano verso maggiore equità e giustizia purtroppo, o per fortuna, sono intrinsecamente legate a questo metodo, abbandonarlo significa tradirne la sostanza. Certo questo non è l’unico livello e va bene continuare a lavorare anche ad altri livelli (le riforme economiche, Porto Alegre), ma senza questo livello che cambia il modo di pensare, accresce la sensibilità, non avremo la forza per resistere, per continuare il cammino verso cambiamenti che probabilmente non vedremo con i nostri occhi e quand’anche ci arrivassimo non saremmo pronti a far funzionare diversamente regole mondiali nuove. Comportarsi in un modo più sostenibile sicuramente ci cambia da subito la qualità della vita, la capacità di connettere le cose che succedono nel mondo, la chiarezza sulla parte dalla quale stare: e questo intendo per felicità. Ci vuole una lunghezza d’onda diversa per capirlo, un altro senso per misurarlo, ma ci si può arrivare tutti, non ci vogliono particolari doti di coraggio o caratteristiche fisiche.
Proseguendo la mia ricerca intorno alla globalizzazione, alle donne e alla trasformazione ho iniziato a fare una serie di interviste a persone – uomini e donne, native e straniere, volontarie e lavoratrici – che hanno fatto esperienza di lavoro riproduttivo e di cura per capire cosa ne pensano, come concretamente lo vivono, come ce lo raccontano, cosa ne hanno imparato, che idee hanno da suggerire. La nostra società, mi sembra, si trova in una colossale impasse, perché le attività della riproduzione biologica, sociale e culturale coinvolgono tutte una pluralità di persone, cioè non sono pensabili logicamente senza un tessuto collettivo e sono intessute di dipendenza, di relazioni con persone non autonome. Ma d’altra parte la nostra società pone al centro l’individuo singolo, neutro e indipendente ed è organizzata per tali individui: finisce così, di fronte ai problemi della sua riproduzione, per partorire necessariamente soluzioni inadeguate e produttrici di subordinazione.
Da questa scoperta ho iniziato a capire che il mio desiderio di pensare il collettivo, di sperimentarlo e praticarlo aveva una radice consistente e doveva stare insieme a un ripensamento sulla libertà e l’autonomia. I seminari di autodifesa dai consumi e dalle merci che abbiamo inventato per genitori, insegnanti, ragazzi e ragazze sono stati una bella occasione per iniziare a ragionare su tutto ciò: sul fatto per esempio che oggi la radice di ogni dipendenza (questione che sembra tradursi solo in droga, videogames e televisione) è la perdita della capacità di determinare i nostri bisogni e la fortissima induzione che subiamo, il fatto che altri decidano, per il loro interesse economico, quale sarà il nuovo bisogno da instillare nel nostro cuore e da soddisfare con nuove merci. Da qui la nostra radicale dipendenza dalle merci, pena la morte sociale. Prima scrivevo della dipendenza incancellabile dalle relazioni di riproduzione;[[Che fa sì fra l’altro che il lavoro di riproduzione sia di per sé un lavoro “non libero”, non richiudibile in un mansionario, in un contratto, perché il suo compito è esattamente quello di rispondere alle esigenze delle persone dipendenti, che se si sporcano vanno cambiate, se hanno fame vanno nutrite, se sono tristi vanno consolate, anche se l’orario è esaurito e noi siamo sfiniti e l’abbiamo già fatto prima…ma sono esseri umani non merci e non solo clienti! essa è di ben altro genere: perché pensiamo che il problema sia la nostra libertà individuale limitata e compromessa dalla relazione oltre misura esigente con una neonata o un disabile o un’anziana nonna? Non si potrebbe iniziare a pensare che il problema stia in un immaginario culturale che esalta e mitizza l’autonomia e l’indipendenza in una maniera incompatibile con la vita, che non ritiene utile educarci a reggere il confronto con la diversità, il conflitto, insegnarci a difenderci dalle eccessive invasioni altrui o dalla violenza con modalità non aggressive, e non ci attrezza a usare a dovere la comunicazione, la capacità di critica, di dire di no?
E con tutto ciò, per cambiare, bisogna farci i conti. A questo proposito ragionare sulla visione antropologica che fa da ideologia alla nostra società non è un esercizio inutile: il modello è quello dell’individuo onnipotente, incapace di riconoscersi dei limiti, absolutus nel senso di senza vincoli, legami. Un’immagine di estrema forza ed efficacia, ma allo stesso tempo di drammatica debolezza e inettitudine a stare dentro la vita per quello che è (a meno di continue protesi, “aiuti” o correttivi tecnologici). Se i vincoli (fisici, psicologici, di tempo e spazio) più stringenti in assoluto sono quelli della riproduzione di altri esseri, gli uomini sono stati storicamente liberi di farsi la loro vita e infatti quel modello di individuo absolutus è in realtà un individuo maschile, con il suo desiderio illimitato oltre che colonizzatore, cioè incurante delle conseguenze che semina intorno, sotto e dietro di sé, che ha bisogno di pesare su altri per realizzarsi e di sfruttarli.
Riscoprire il limite, metterlo al centro, trasformarlo da confine negativo e quindi da superare, a semplice dato della vita: possiamo finalmente accettare la nostra condizione umana per quella che è, cioè limitata? I nostri limiti siamo noi stesse, il nostro corpo, i nostri tempi, la nostra educazione, perché credere che sono qualcosa di diverso da noi, di estraneo, di imposto da fuori? Essi sono anche modificabili, ma senza il trucco della tecnologia, dello sfruttamento altrui, delle scorie nascoste sotto il tappeto, bensì, per esempio, grazie alle relazioni che intorno riusciamo a tessere, grazie alle soluzioni comunicative che sappiamo inventare, insomma con le risorse nostre e delle altre persone intorno a noi, uomini e donne, nativi o migranti, che attiviamo e soprattutto spartendo i pesi, perché solo così anche quelli che continuiamo a sentir gravare sulla nostra libertà, si alleggeriscono fino a sparire.
In tutto ciò c’è molta più felicità e giustizia di quanta ce ne sia nello sforzo di sbarazzarci dei limiti inseguendo la nostra libertà.
“Riproduzione produttiva” per dire tutto ciò è una definizione estremamente vecchia e inadeguata per qualcosa di nuovo: le parole “produzione” e “riproduzione” sono nate insieme al sistema che ha fatto della produzione di merci il modello di qualsiasi attività e relazione. Abbiamo bisogno di nomi nuovi per raccontare il cambiamento che costruiamo, che ciascuno e ciascuna nella sua vita pratica e scopre, pensa e sogna.
Per favore il titolo mettetecelo voi (e magari fatemelo sapere)!!