Version originale dont une partie a été traduite dans art370, rub141Il gruppo Sconvegno nasce nel 2001, con l’idea di organizzare una giornata di dibattito e confronto sul significato che diamo oggi al definirci soggettività femministe; la discussione prende avvio dalle nostre contraddizioni e si arricchisce di stimoli di riflessione, che vogliamo portare all’esterno. Nasce così la giornata dello Sconvegno, un momento di incontro e riflessione, aperto anche ai maschi. Molte donne, giovani e non, appartenenti a gruppi o singolarmente interessate, accolgono l’invito al confronto, che prende spunto dalle domande emerse nei nostri incontri, secondo noi centrali in un percorso di cambiamento radicale. Riteniamo, infatti, molto importante – oggi più che mai – ricominciare a porci delle domande, perché osserviamo quanto si tenda a dare per scontati molti aspetti della nostra società, attribuendo loro un carattere di naturalità e immodificabilità. La realtà é complessa e articolata su molteplici livelli interconnessi ed occorrono sempre nuovi strumenti di decodificazione per individuare pratiche di intervento concrete che siano pervasive e incisive nello stesso tempo e vadano nel senso di una trasformazione.
Questo è stato solo l’inizio del nostro percorso! Raccogliendo i numerosi spunti di quella giornata, abbiamo ripreso le nostre domande per provare a formulare non risposte definitive, ma ipotesi di rottura. Abbiamo deciso di approfondire il nodo del lavoro, perché esso costruisce e impone i confini della quotidianità, plasma le nostre soggettività, diventando centrale nell’organizzare la vita. Pensiamo sia importante mettere in discussione il ruolo assegnatoci da un sistema da cui vogliamo fuoriuscire; estinguere il lavoro per de-mercificare le relazioni umane, costruire e liberare i nostri desideri e la nostra creatività, superare la macchina di riproduzione di bisogni che impoverisce le nostre capacità, di cui oggi non siamo solo vittime, ma complici attrici.
In cosa consiste, per noi, il lavoro comunemente inteso? Per rispondere abbiamo scelto la metodologia dell’inchiesta politica, che parte dal presupposto di conoscere la realtà con il puntuale intento di rovesciarla. Nell’elaborare l’inchiesta, abbiamo adottato anche uno dei presupposti dei femminismi, il partire da sé, tentando di realizzarlo concretamente: partendo dalla materialità dei processi che viviamo, abbiamo iniziato un primo percorso di autoinchiesta, noi e il lavoro.
Nonostante le diverse occupazioni in cui siamo impiegate, nel corso dell’autoinchiesta abbiamo evidenziato collettivamente alcune variabili, secondo noi centrali.
Mansioni
Ognuna di noi svolge lavori diversi, ciascuno regolato da norme informali conosciute, accettate e rispettate da colleghe/i, ogni ambito lavorativo ha un proprio linguaggio, codice di accesso per gli addetti ai lavori.
Francesca, 29 anni: lavora part-time in un consorzio di ricerca sociale di genere per un progetto sul mercato del lavoro (MdL) e le donne. Inoltre è occupata al Comune di Milano in una ricerca sperimentale per l’incontro tra domanda e offerta nel MdL, rivolta alle figure escluse perché rientranti nella categoria dei gravi emarginati sociali. Entrambi sono progetti finanziati dalla UE.
Sveva 26 anni: Comunico tramite i tasti del mio pc portatile, elaboro mentalmente, confrontandomi poco. Lavoro in piena apparente autonomia. Assegnista di una ricerca europea. Ho un ufficio, una grande borsa che trasporta i materiali da un luogo all’altro per permettermi di lavorare ovunque. Molta soddisfazione, inesistenti confini. Scadenze improrogabili. Completa autogestione, fiducia concessa. Responsabilità tronfia e stancante.
Chiaram, 29 anni: Faccio tanti lavori e nessuno. Più o meno faccio parte del proletariato intellettuale: tutoraggi; collaborazioni con accademia e centri di ricerca e documentazione; partecipazione a progetti di formazione con vari enti e associazioni, per lo più finanziati dal FSE. Il mio strumento di lavoro sono io + il computer.
Chiaral, 30 anni: Lavoro in un’associazione di cooperazione interculturale tra donne. Che mansioni svolgo? Di tutto di più, dalle telefonate alla traduzioni di progetti, articoli, dalle rendicontazioni dei progetti alla loro stesura. Il tutto poco riconosciuto.
Eleonora 29 anni: Lavoro in un’associazione di donne, dove mi occupo di più attività: biblioteca e assistenza alla ricerca, web, promozione delle iniziative, manutenzione informatica, segreteria spicciola. L’autonomia che mi è data, se mi responsabilizza e gratifica, d’altro lato aumenta la difficoltà di gestione delle priorità
Betta, 27 anni: Mi sto formando come documentarista. Lavoro a progetto in un’associazione femminile dove riordino un archivio storico sperando in ulteriori collaborazioni. Intanto inseguo corsi e seminari e sopravvivo lavorando in un call center.
Tempo
Il tempo è una delle variabili centrali per meglio capire come è organizzata la nostra vita in funzione del lavoro, come si struttura una settimana dopo l’altra, come incastriamo ciò che non è considerato lavoro e in quanto tale non è remunerato. In altre parole quanto siamo flessibili? questa flessibilità è in parte determinata da noi o quasi interamente imposta?
Fra nonostante il contratto non lo richieda, deve essere presente ogni giorno sul luogo di lavoro, ha degli orari abbastanza flessibili in teoria, in pratica è opportuno inventarsi una scusa per arrivare dopo la mattina o uscire prima nel pomeriggio. Siccome è pendolare, il tempo è anche quello richiesto da tre mezzi di trasporto diversi per poter raggiungere la destinazione.
Sve: Il mio lavoro non ha un ritmo costante. Non mi obbliga a timbrar il cartellino -che non possiedo, il mio COntratto sembra essere COordinato (non con la mia vita) e dis\COntinuativo- ritmi e tempi autoimposti. Il mio lavoro però ha una scadenza. Sarò presto costretta ad inventarmi una nuova confezione. Quella vecchia si autodistruggerà in pochi mesi. Mi autodisciplino.
Chim: Non ho orari né giorni fissi: si lavora a progetto. Il che significa per scadenze. In teoria posso autogestirmi il tempo, in pratica incastro tutto alla meglio, a seconda delle priorità del momento.
Chil: Lavoravo 24 ore al giorno: mi alzavo alle 7, andavo a Milano (un’ora di treno) e stavo lì fino a sera, riprendevo il treno arrivando a casa alle 22, mangiavo velocemente e accendevo subito il PC per prendere la posta e lavorare fino a tarda notte. Reperibilità 24 ore per 7 giorni, vissuta come una cosa normale e giusta. Ora sono riuscita a cambiare un po’, molto poco.
Ele: A differenza della flessibilità che ha caratterizzato gli anni precedenti, ho un orario fisso e un luogo di lavoro ben identificato; 8 ore giornaliere hanno sostituito un’agenda di lavoro a patchwork, determinata dalle committenze. Questo ha migliorato la qualità della mia vita. D’altra parte, l’investimento nel lavoro mi porta a concentrarmi in esso ben oltre le 8 ore da contratto.
Betta: E’ il bene più prezioso e il più soggetto a contrattazione: turni e orari flessibili da incastrare nella giornata. Ognuno ne rivendica necessità e diritto, solo che il tempo che vendi non è più tuo.
Spazio e luogo/non luogo
Importante è inquadrare lo spazio in cui svolgiamo la nostra occupazione, gli strumenti che utilizziamo, il luogo, ma anche il non luogo per chi può lavorare con un PC da qualsiasi angolo della città. Quanto influisce l’ambiente di lavoro su quello che facciamo?
Fra lavora in due uffici diversi, in due parti differenti della città. In uno lavora con sole donne, non ha una sua scrivania, gira da una all’altra e tutti gli strumenti che usa (internet, telefono, stampante) sono sempre chiesti in prestito ad altre. Nell’altro ufficio, situato in un imponente palazzo fascista, ha invece una sua scrivania, i suoi strumenti di lavoro e può gestire in modo più autonomo il luogo.
Sve: Il mio spazio di lavoro è il mio portatile. Ho un ufficio ma nessun obbligo ufficiale ad esserci. Contatti telematici. Eterea solitudine. Non luogo di lavoro. Mi piace questo retrogusto di libertà che mi dà, ma è molto pericolosa: anche la casa diventa il mio luogo di lavoro. Anche qui niente confini, assorbimento continuo e completo.
Chim: Lavoro in diversi luoghi: un po’ nelle sedi dei posti con cui collaboro, un po’ a casa, un po’ dove capita. Spesso nei luoghi di lavoro, lavoro per gli altri lavori.
Chil: Il mio luogo di lavoro sono io, ovunque io sia.
Ele: ho uno spazio di lavoro stabile, che si affaccia su un cortile piacevole e silenzioso; per me è importante perché ho sperimentato l’ambiguità di lavorare a casa e la frustrazione di un luogo di lavoro che non rispetta il corpo.
Betta: i miei lavori sono itineranti: all’associazione mi sposto in continuazione da una scrivania, da una stanza e da un edificio all’altro; al call-center vago con la cuffia in mano cercando una position libera e funzionante. La sensazione di essere di troppo mi angoscia e innervosisce inevitabilmente.
Reddito e autonomia
Il reddito riveste per tutte noi un’importanza particolare, lo abbiamo ricondotto alla variabile autonomia intesa anche come indipendenza economica. Nessuna si appoggia alla rete di relazioni familiari in modo esclusivo per vivere, quindi il reddito determina i parametri di una problematica o più agevole sopravvivenza.
Fra riceve lo stipendio mensilmente in un luogo e ogni 60 giorni nell’altro, arriva a percepire circa 900€ al mese a cui bisogna togliere le spese dei diversi abbonamenti mensili dei trasporti e quelle per il pranzo della settimana: un panino e una bibita, ma Milano è molto cara se si fanno due conti!
Sve: Il contratto parla chiaro. I soldi arrivano puntuali. Non se ne parla mai. Un non detto che va bene fino a che tutto scorre, ma che nel caso di difficoltà mi impedisce qualsiasi tipo di contrattazione.
Chim: Direi che guadagno poco: in media sugli 800/900€ al mese. Niente ferie, niente malattie, niente tredicesima, straordinari, buoni pasto. I soldi non arrivano regolarmente. A volte niente, poi magari tutti insieme: peccato che affitto e bollette siano regolari!
Chil: La retribuzione per me è una questione molto problematica, perché ho difficoltà ad approcciarmi al denaro e quindi che fatica trasformare in soldi tutta l’energia fisica e mentale che metto nel lavoro! All’inizio ero pagata a ore, guadagnavo un sacco di soldi, poi per strane vicende sono stata pagata a forfait e non è tanto lontano dal cottimo.
Ele: Lavoro è strettamente collegato ad emancipazione, dal momento in cui, dopo il liceo, ho fatto alcune scelte: non dipendere economicamente dalla famiglia, vivere con un uomo, iscrivermi all’università. Prima della laurea la necessità di un reddito e progetto di vita erano scissi, dopo si sono parzialmente con-fusi.
Betta: Quando arriva il momento di chieder soldi il lavoro-schiavitù ritorna con la tutta la sua noncuranza e ti accorgi che la nicchia che stavi costruendo non era di roccia ma di cartapesta. Scarsa chiarezza, promesse e prospettive mancate, attesa, assoluto senso di precarietà. Tengo stretto il call-center per arrivare alla fine del mese e continuare a sperare che mi sto sbattendo, se non per la migliore, almeno per l’alternativa meno peggio.
Contratti – diritti – contrattazione
La gamma di contratti che ci vede legate al mondo del lavoro rappresenta un piccolo spaccato delle trasformazioni avvenute in questo ambito. Si intravede subito l’assenza di diritti, la mancanza di una continuità garantita, la dimensione individuale che sembra ormai caratterizzare le soggettività al lavoro, anche se in realtà abbiamo molte cose in comune. La contrattazione – fondamentale per capire la mansione richiesta, le scadenze e il reddito – è spesso difficile da sostenere, in modo particolare se ci sono legami informali con il/la superiore.
Fra ha dovuto aprire la partita iva, teoricamente è una libera professionista, lavora a progetto. I diritti praticamente non esistono; poco il potere contrattuale e difficile la contrattazione con i due capi donna a cui fa riferimento.
Sve: La precarietà è la mia unica certezza. Tutto è in divenire, da costruire contratto dopo contratto. Devo imparare a vendermi bene, a rendermi appetibile. Una continua ricerca di arricchire il mio biglietto da visita, il mio Cv. Non conosco i miei diritti, non saprei con chi discuterne nel mio posto di lavoro.
Chim: Ho contratti COCOCO, a tempo determinato e collaborazioni occasionali in ritenuta d’acconto. Ignoro, in generale, le differenze fra queste forme contrattuali e soprattutto i diritti che mi garantiscono, se ci sono.
Chil: Quando mi sono fatta male, ho vissuto il precariato nel suo lato peggiore. Fino ad allora in fondo mi era comodo il COCOCO: pensavo “finché mi piace continuo a lavorare, senza obblighi” anche se poi un troppo spiccato senso di responsabilità mi ha sempre costretta a non andare in vacanza, a lavorare senza sosta. Oggi ho capito quanto subdolamente sia sfruttamento, anzi autosfruttamento.
Ele: Ho un contratto da dipendente a tempo determinato, che spero diventi indeterminato nei prossimi mesi. Dopo gli anni di lavoro nero, COCOCO, entrate fluttuanti, un contratto e un’entrata fissa mi danno sicurezza, mi permettono di fare progetti per il futuro e di gestire in modo esplicito molti aspetti della relazione lavorativa legati al denaro.
Betta: Il mio potere contrattuale non esiste: sono assolutamente sostituibile. So poco dei miei diritti come lavoratrice. Al call center sono impiegata con un contratto di collaborazione ‘occasionale’, contratto che conosco solo per la sua illegalità.
Potere – relazioni
Il nodo del potere sul luogo di lavoro è senz’altro uno dei più complessi da sviscerare: noi tutte, per ragioni diverse, abbiamo comunque a che fare con donne che hanno e più potere di noi. Una gerarchia dunque esiste anche se a volte non è a prima vista riconoscibile. Ma è diverso il modo in cui le donne gestiscono il potere? Come vengono usate sul lavoro le relazioni che esse instaurano con noi?
Fra nella scala gerarchica del suo ambito professionale è all’ultimo livello, chi sta ai vertici esercita il proprio potere in modo affabile e cordiale, ma secondo le ferree leggi che reggono il sistema.
Sve: Le relazioni di potere nella mia esperienza passano attraverso il non detto. Finché non si sgarra, nessuno sembra patirne. Il conflitto non è previsto. Le informazioni si vendono a caro prezzo. Ecco che la presenza in ufficio diventa indispensabile, per riuscire a gestire le dinamiche interne.
Chim: Lavoro sia sola che con altre/i. Tendenzialmente i miei pari sono persone che stimo e con cui ho un buon rapporto. Ho maggiori problemi nella gestione del conflitto (espunto!) con le cape (tutte donne). Gli equilibri sono delicati. Personalmente navigo a vista urtando qua e là i confini invisibili delle gerarchie.
Chil: Non riesco mai ad agire il conflitto, sono completamente fascinata dalla mia capa, condivido tutto ciò che mi esplicita e alla fine sono solo in grado di accettare, niente più.
Ele: L’organizzazione dell’associazione è gerarchica, con ruoli e strutture formalizzate: una gestione esplicita del potere che protegge le relazioni; una regola condivisa permette di disinvestire emotività dagli aspetti più routinari del lavoro, ma mostra i suoi limiti rispetto alla fluidità di compiti e relazioni tipiche di uno spazio politico. Tra la regola e il suo superamento, ancora una volta la scommessa è camminare sul confine.
Betta: Ho avuto come superiori solo donne con atteggiamenti e modalità diverse. La discriminante? Il loro stesso potere, dunque il loro stesso ruolo, indi il loro lavoro. Ho incontrato donne con ruoli cuscinetto, mediatrici tra manovalanza spicciola e bassa dirigenza, e donne che hanno potere e che, per evitare conflitti, sanno creare una grande, invisibile distanza.
Lavoro e politica
focalizzato questa variabile non solo perché molte di noi lavorano in luoghi dove svolgono una parte della propria attività politica, ma anche perché riteniamo centrale in un percorso di trasformazione produrre conflitto sul lavoro. Troppe volte le nostre lamentele rimangono individuali, isolate e non si traducono in terreni di lotta ancora da sperimentare. Troppo spesso l’attività politica inizia una volta che si è conclusa quella lavorativa.
Fra svolge attività politica fuori dal suo luogo di lavoro, quindi l’occupazione il più delle volte è un ostacolo alla libertà di movimento e di azione richiesta dalla militanza. Come creare potenziali terreni di rottura anche sul lavoro?
Sve: La scelta del mio lavoro è stata una scelta politica. Inseguo anche in questo ambito il piacere. Il mio lavoro permette alla mia identità di essere in continua formazione. Studiare è parte attiva della mia militanza. Ma non tutto ciò che luccica è oro, lo sto sperimentando sulla mia pelle.
Chim: Ho la presunzione di pensare che i miei lavori abbiano significato anche dal punto di vista politico. Mi occupo di tematiche di genere e in tutto quello che faccio cerco di mettere in pratica quello che penso. A volte a livello di contenuti, altre nel modo di impostare il lavoro e nel gestire le relazioni con gli/le altri/e. Se poi si inneschino effettivamente processi di trasformazione, non saprei dire.
Chil: Il lavoro per me non è legato ai soldi; ho sempre vissuto la contraddizione di esserne attratta e respinta allo stesso tempo, attratta perché per me è agire politico e respinta perché molte volte lo vivo come funzionale al sistema. E se anche il lavoro fosse qualcosa di indotto? È così ovvio e naturale che se non lavori non esisti? Cioè lavorare è esistere? O esistere è lavorare? A me piace pensare che non sia così.
Ele: Il tentativo di intrecciare politica e lavoro in parte si concretizza, in parte rimane utopia. Lavoro in un’associazione che storicamente lotta per le donne; questo per certi aspetti combacia con la mia dimensione politica. Ma l’associazione è dentro il sistema; i rapporti che si sviluppano sono segnati da dinamiche da esso strutturate: è come camminare sempre su un territorio di confine, tra cambiamento e adattamento.
Betta: Contaminare i luoghi di lavoro: sollevare vespai collettivi e/o individuali, questo mi capita di fare e qui sta parte della mia volontà di resistenza rispetto ad un meccanismo lavorativo distorto. Non ci riesco spesso ma mi impegno! Credo che sollevare micro dubbi sia già molto.
Identità – stereotipi – immaginario
Con l’autoinchiesta ci siamo domandate se il lavoro è per noi un fattore di identità (per es. quando ci presentiamo esplicitiamo quale professione svolgiamo? Finché si studia si fanno lavori-marchetta, con cui è più difficile identificarsi, ma poi?) Ci siamo chieste se rientriamo in uno dei tanti stereotipi che caratterizzano la femminilizzazione del MdL, così come ci viene descritta. L’immaginario legato alla vita professionale è un insieme di aspettative, desideri, impiego di energia, come non rischiare allora di cadere nella trappola del carrierismo e dell’autogratificazione fine a sé stessa per un lavoro ben fatto?
Fra, forse in modo altrettanto ideologico di chi si lascia ingannare, è completamente disincantata: ha scelto un lavoro che rientra nella categoria dei meno peggio. Principalmente lo fa per sopravvivere e spende per quanto possibile nell’attività politica ogni conoscenza che acquista in quella sede.
Sve: La mia identità gode dello status che il mio lavoro le dà. Sono completamente assorbita da quello che faccio. Piano piano – e a caro prezzo- sto imparando a cercare la mia identità anche al di là del lavoro.
Chim: Sono abbastanza confusa e a volte la tentazione del posto fisso, del ruolo sociale definito e dello stipendio ogni metaforico e praticissimo 27, si fa allettante. Ma visto che, di fatto, scelgo la precarietà per me lavoro-vita-progetto e piacere sono un tutt’uno. Non dico che coincidano (tanti, troppi compromessi – di soldi, tempo, impossibilità di rifiutare – sono qui a negarlo) ma sicuramente voglio che siano connessi.
Chil: Non percepisco il lavoro come qualcosa di separato da me stessa, lo sento come me stessa. Grosso guaio considerare il lavoro come qualcosa di indotto e viverlo invece come qualcosa di fortemente identitario…
Ele: Il contesto in cui lavoro costituisce un orizzonte di senso per la mia identità, proprio per il suo intento politico, ma è anche fonte di contraddizioni: rispetto a ruoli, dinamiche, aspettative di cambiamento. A volte il senso di responsabilità sfocia in senso di colpa.
Betta: Il mondo del lavoro lo capisci subito cosa può produrre e diventare: vita. Sto cercando di resistere, attraverso il gioco e vivendolo come tale per preservare la mia umanità. Forse è una rimozione, ma di certo è conscia e ragionata. Preferisco l’autoironia al cinismo, all’insofferenza o peggio alla rassegnazione in cui puoi incappare quando ti ritrovi a focalizzare lucidamente la tua situazione.
Primi spunti
Trasversali alle variabili fin qui individuate e condizione comune ai diversi lavori che svolgiamo sono la precarietà (reddito, continuità, condizioni lavorative) e lo sfruttamento che diviene anche auto-sfruttamento. Siamo spesso, infatti, noi le prime ad avere uno spiccato senso della responsabilità e un implacabile senso di colpa per portare a finire come ci viene richiesto. Ci interessa anche sottolineare che uno dei principali committenti del nostro lavoro e della nostra formazione è la UE; determina i contenuti e eroga i nostri compensi. Questo potrebbe già essere un dato che evidenzia le trasformazioni del MdL.
Un’altra importante considerazione che deriva dalla nostra autoinchiesta evidenzia uno scollamento con i femminismi degli anni ’70: se allora avere un’occupazione retribuita era sinonimo di emancipazione, oggi – quantomeno per noi – questo non vale più. Lavorare non è più una conquista, ma un dato acquisito, una necessità. Se allora si trattava di emanciparsi con il lavoro, oggi per noi diviene centrale emanciparci dal lavoro! Per questo vogliamo trasformare il percorso di autoinchiesta in un’inchiesta politica vera e propria, per indagare cosa possa significare politicamente la femminilizzazione del MdL di cui tanto si parla. Quali potenzialità di rottura apre? quali margini di ambivalenza ci sono?
Chi inchiestare?
Quelle donne che esprimono non accettazione per il sistema, che cercano di mettere in atto strategie di resistenza: soggettività non normalizzate, poco adattabili allo status quo, che eccedono gli equilibri imposti.
Cosa inchiestare?
Come lavorano oggi le donne? Cosa fanno? Che ruolo occupano nella gerarchia lavorativa (reddito, mansioni, status)? Ricoprono posizioni di potere? Come lo gestiscono?
Come è cambiato il modo di lavorare? (Condizioni di precarietà, flessibilità, carenza di diritti, uso delle tecnologie)
Cos’è il lavoro? E’ sinonimo di indipendenza in senso lato? È fattore di piacere o alienazione?
Il lavoro rappresenta il perno attorno al quale si costruiscono i ritmi della propria vita, le scelte personali e politiche, i desideri, l’immaginario? È lo strumento per procacciarsi reddito, o anche lo spazio-luogo-tempo in cui sviluppare e concretizzare una propria ricerca di senso? È un’altra cosa ancora?
Come si comportano le donne sul lavoro? Accettano di più o di meno decisioni, condizioni, ritmi imposti?