1. Sur l'Europe

L’Europe dei diritti dopo la Convenzione

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art1172

In un fortunato volume L. Liedentrop ([[L. Siedentop ” La democrazia in europa” Torino 2000) si chiedeva: dove sono i nostri Madison? Oggi lo sappiano con certezza: non esistono i nostri Madison.
In un primo bilancio dei lavori della Convenzione ([[Nel momento in cui si scrive la Convenzione non ha ancora terminato la redazione delle parti III e IV del progetto di Costituzione in relazione alla proroga concessa al vertice di Salonicco. ) si deve riconoscere che il metodo ” convenzionale”, da molti contestato, di preparazione della conferenza intergovernativa che inizierà il 15 Ottobre a Roma un risultato, forse non voluto, l’ha indubbiamente conseguito. Questa volta lo scontro sul futuro dell’Unione si è reso evidente di fronte all’opinione pubblica europea ed ha avuto toni così aspri e netti che il ” compromesso dilatorio” raggiunto negli ultimi giorni sarà comunque instabile e oggetto di contesa tra gli opposti schieramenti. Nelle ultime settimane sono volate parole grosse, persino dopo l’accordo in extremis: il vicepresidente della Convenzione G. Amato è giunto ad augurarsi, contro la resistenza di alcuni circoli governativi nazionali all’istituzione di un solo Consiglio per tutti gli affari legislativi che ” i cittadini europei, senza arrivare agli estremi dei nostri antenati francesi riescano a far capire di essere più importanti delle ( false) prerogative dei ministri di settore” ([[V. G. Amato ” Una Unione a due teste non è al ribasso” in Il Sole 24 ore !5.6.2003). Anche l’influente A. Lamassoure ha affermato che a Bruxelles certo non si è mostrato niente di simile allo spirito di Filadelfia, ma allora il problema del rapporto con gli inglesi lo si era già risolto, anche se con metodi non condivisili. Il Presidente della Commissione non ha, da parte sua, esitato a etichettare il progetto iniziale di Giscard come “deludente e arretrato” e frutto di un colpo di mano e non ha mai desistito dal giudicare, (anche dopo il lifting finale), comunque insoddisfacente il risultato finale. Nonostante ciò nessuno dei leader europei se l’è sentita di rischiare veramente, di promuovere un movimento politico e di’idee per una trasformazione autenticamente federalista dell’Unione. Scontro si, ma non rottura; le elites federaliste del vecchio continente nel complesso ci consegnano questa scelta: la mancanza di una leadership politica europeista ha finito per premiare la realpolitik. E’ rimasta vera l’amara constatazione di J. Habermas quando, alla vigilia della Convenzione, lamentava come la fase della riforma costituzionale cadesse comunque in un vuoto ” che dovrebbe essere riempito dalla volontà politica degli attori coinvolti nel processo….gli intellettuali non si sono fatti carico del compito e ancor meno sono i politici a volersi scottare le dita con un tema poco popolare”([[V. J. Habermas ” Perché l’europa ha bisogno di federalismo? “in ” Diritti e Costituzione nell’Unione europea” ( a cura di G. Zagrebelsky Bari 2003 pag. 113.).

Un ” monstrum” istituzionale, ancora da decifrare

Eppure anche se dallo scontro tra ” sovranisti “e ” comunitari” non è emerso ancora un autentico movimento per un’Europa politica , anche se le linee di divisione hanno riguardato più la configurazione dei poteri nell’Unione che le garanzie e i diritti dei suoi cittadini, i 15 mesi di lavori ” alla luce del sole” della Convenzione hanno enormemente chiarito il senso e il significato di un confronto che eccede e di molto la dimensione puramente istituzionale. Dietro il confronto in Convenzione e sui media tra le due linee vi è un’emergente frattura tra due orientamenti di fondo, tra due ” filosofie” dell’integrazione europea tra le quali primo o poi si dovrà scegliere: tra coloro che puntano ad un federalismo ( dalle caratteristiche istituzionali, forse, ancora da approfondire) che rilanci il cosiddetto modello sociale europeo e riorganizzi la vita democratica a livello sovra-nazionale e i fautori di una cooperazione inter-statale a carattere funzionale e con forti contorni liberisti, compatibile con le residue ambizioni nazionali che potrebbe compattarsi sotto la presidenza italiana, iniziata nel peggiore dei modi.
Volenti o nolenti tutti hanno ” giocato” alla scrittura di una Costituzione europea accettandone implicitamente l’idea, persino gli agguerritissimi inglesi ai quali ormai lo stesso enfatico termine non sembra fare più paura. Un gioco del genere può alla fine rivelarsi per gli Stati piuttosto pericoloso: la nota tesi dell’inesistenza di un demos europeo è ormai ” falsificata” dagli eventi degli ultimi mesi perchè il tema ha finito per impadronirsi dei media, è entrato, nonostante tutto, nell’agenda del vecchio continente; sarà sempre più difficile appellarsi alla mancanza di un linguaggio e di una cultura comune ([[La tesi della mancanza di una cultura comune è peraltro molto contestata, soprattutto se ci riferiamo alla cultura giuridica: V. E. Denninger ” I pilastri di una cultura europea dello Stato di diritto” in Quaderni costituzionali n. 3\2003;; P. Haberle ” Per una dottrina della costituzione come scienza della cultura ” Roma 2001 ) tra i cittadini europei per impedire il ” salto” nell’Europa politica. Come hanno scritto J. Habermas e J. Derrida su Liberation del 1.6.2003 ” il 15 febbraio – con i cortei della pace- si è mostrata una sfera pubblica europea che reclama ascolto, spazio e potere costituente”. La Conferenza intergovernativa risponderà a questa esigente presa di parola pubblica: non basterà più tacitarla con le virtù del metodo Monnet dei piccoli passi e delle piccole riforme.
Difficile giudicare, così a caldo, il prodotto della Convenzione, ancora privo delle ultime parti.
Il giudizio deve sicuramente assestarsi e liberarsi da quel sentimento di disillusione che non può non provare chi, sempre con J. Habermas, J. Derrida e gli altri intellettuali che hanno scritto il 1 giugno su vari giornali europei per rilanciare il progetto europeo, pensava che dagli emergenti contrasti tra l’Unione e l’amministrazione americana- dal Protocollo di Kyoto alla Corte di Roma-venisse una spinta verso un consolidamento degli ancora abbozzati elementi di un’Europa democratica e sociale .
La questione della rideclinazione dei poteri di governo nell’Unione ha polarizzato l’interesse di tutti, fuori e dentro la Convenzione, ed ha rischiato di far fallire l’intera operazione. Si è ridimensionato l’iniziale disegno di Giscard di costruire attorno alla figura del ” superpresidente” una sorta di esecutivo bis con una camera di rappresentanza ad hoc cui riferire: il” superpresidente” ha oggi competenze di mera preparazione del Consiglio europeo e di rappresentanza ( come portavoce ) esterna dell’Unione unitamente al Ministero degli esteri, non ha più un suo board e riferirà al Parlamento europeo. E’ quindi stata archiviata l’idea veramente regressiva e anacronistica di creare un’ulteriore organo di rappresentanza chiamata ” camera dei popoli” a composizione mista tra rappresentanti dei parlamenti nazionali e di quello di Bruxelles che avrebbe compromesso l’immagine del Parlamento europeo come espressione della volontà generale dei cittadini del vecchio continente. Come noto, anche sul Ministro degli esteri si è trovata una mediazione attraverso il sistema cosiddetto dei ” due ombrelli”, elezione del Consiglio e vicepresidenza della Commissione.
Non è chiaro,ora, chi uscirà rafforzato: nel complesso l’obiettivo minimo della Convenzione e cioè la semplificazione dei Trattati sembra essere fallita poiché ” Costituzione” con le sue quattro parti rischia di essere più lunga, più contorta e inevitabilmente contraddittoria dei Trattati precedenti. In apparenza sembrano rafforzarsi tutte le componenti del ” quadrilatero” comunitario: il Parlamento europeo, il Consiglio, la Commissione e la stessa Corte di Giustizia: per Giscard il vero vincitore, anche se è lecito dubitarne, è il Parlamento europeo perché sarebbe stata finalmente accettato il principio della codeterminazione come regola( salvo eccezioni) nella produzione legislativa dell’Unione ([[” Giscard: il nostro miracolo” intervista sulla Repubblica del 14 Giugno).
Si è giustamente insistito sulla necessità di un radicale passaggio al sistema della maggioranza qualificata ma su questo delicatissimo punto con certezza la vera battaglia sarà nella Conferenza intergovernativa. La bozza è stata, poi, criticata a fondo perché non introduce alcuna modifica sulla questione fondamentale della revisione del testo. E’ questo un nodo particolarmente sensibile nella riorganizzazione dei poteri in Europa perché coinvolge direttamente la scelta tra metodo comunitario e metodo intergovernativo. G. Amato è stato sul punto molto efficace con l’immagine della ” moglie del soldato ” ([[V. G. Amato ” La Costituzione dell’Unione e la moglie del soldato ” in Il sole 24 ore del 1.6.2003.). Nel fortunato film di N. Jourdan il protagonista scopre che l’oggetto del suo desiderio non è una donna, ma un uomo: non una ” Costituzione” ma ” un trattato”, poiché sono gli Stati che rimangono i padroni esclusivi del cambiamenti costituzionali e per tali eventuali trasformazioni permangono le regole ordinarie di revisione dei Trattati internazionali.
Tuttavia questa linea critica, condivisibile nel merito, mi pare conceda troppo alle teorie
dell’integrazione europea che insistono nell’individuare il punto discriminante tra l’ordinamento comunitario e un vero ordinamento federale nel fatto che nel primo i ” signori dei Trattati ” sono gli Stati, mentre una Federazione è l’artefice dei propri mutamenti istituzionali. Sono numerose decine le definizioni usate per connotare la specificità e le caratteristiche di quell’inedito ordinamento che si è sviluppato dal Trattato di Roma sino ad oggi. Tra queste la migliore è forse quella seguita dalla scuola berlinese di I. Pernice di ” federazione costituzionale” con la quale si riesce a cogliere unitariamente gli elementi originari e le potenzialità innovative della costruzione giuridica continentale che sembrano irriducibili alle categorie tradizionali della pubblicistica otto-novecentesca, in una prospettiva che non nega comunque la necessità di un drastico approfondimento dei meccanismi di partecipazione democratica e del livello di tutela dei diritti fondamentali ([[V. I. Pernice « Multilevel constitutionalism and the Treaty of Amsterdam « in Common market review n.3\1999 ;” I. Pernice ” The Charter of undamental rights in the constitution of the european Union ” Whi-Papers 14\2002). Anche da parte di teorici radicali, che affrontano il nodo dell’integrazione europea soprattutto dal punto di vista della questione della cittadinanza e del tema dell’immigrazione, come E. Balibar e Y. Moulier Boutang sono venuti contributi che hanno cercato di privilegiare, nell’interpretazione dell’Unione, proprio l’idea di ” mediazione” e di ” impotenza ” intesa come riconoscimento di un pluralismo che non va soppresso, come nelle teorie classiche della sovranità, ma reso principio fecondo di un’apertura post-nazionale delle istituzioni europee ([[V. E. Balibar ” L’europe, l’Amérique, la guerre. Réflexions sur la médiation européenne Paris 2003 ; Y.MoulierBoutang « E pluribus multiplico, e pluribus multitudo. Remarque dans le désordre sur la future constitution » in Vacarme n.23\2003 ). E’ infatti innegabile come ormai le posizioni siano piuttosto polarizzate: a chi come D. Grimm ([[V. D. Grimm ” Il significato della stesura di un catalogo europeo dei diritti fondamentali nell’ottica della critica dell’ipotesi di una costituzione europea” in “Diritti e costituzione… ” cit.. ) continua a ribadire che la Kompetenz- Kompetenz rimane in capo agli stati perché questa implica il potere supremo di decidere sulla permanenza di un dato ordinamento, J. H.H.Weiler ([[J.H.H. Weiler ” Federalismo e costituzionalismo: il Sonderweg europeo” ibidem )replica che questa ricerca di una ” competenza di ultima istanza” è come la ricerca del Santo Graal, del tutto superflua e fuorviante per comprendere come funzionino istituzioni che non hanno precedenti. Per contro la già ricordata scuola del ” multilevel constitutionalism” risolve tale problema drasticamente radicando l’ultima competenza in capo ai cittadini europei ([[I. Pernice e F. Mayer ” La costituzione integrata dell’Europa” cit.).
In altri termini mi pare piuttosto formalistico ed anche troppo concessivo alle oggi declinanti posizioni ” sovraniste” immettere nel composto che deriva dalla fusione tra ordinamento di matrice europea e ordinamenti nazionali la sola cartina di tornasole del ” chi decide sui trattati” per stabilirne la natura: se si usassero altre cartine – come ricordato anche da Weiler- la supremazia del diritto comunitario e il suo effetto diritto negli ordinamenti nazionali ( solo per citarne alcuni)- i risultati sarebbero diversi.
Comunque già oggi è iniziata la battaglia per l’intepretazione del futuro ” Trattato costituzionale”, e non è affatto scontato che la Conferenza a guida italiana non ne peggiori il contenuto e il punto di equilibrio: l’invito dell’Economist([[V. l’editoriale dell’Economist del 19.giugno ) a buttare nella spazzatura il progetto non fa presagire nulla di buono. Sempre che il ” Trattato costituzionale” finale rimanga simile a quello licenziato dalla Convenzione, occorrerà comunque valorizzare al massimo ogni opzione che consolida un livello politico ed istituzionale ” sopranazionale ” ed europeo, assumendo il testo come un terreno necessariamente preparatorio per quella ” kehre” federalista che purtroppo non c’è stata ed utilizzando al meglio anche l’effetto ” simbolico ” del varo di una Carta che si autodefinisce ” Costituzione” ([[Indubbiamente colpisce la pubblicazione come inserto di Le Monde del 18.6 del ” Projet de la Convention pour une Constitution euroéenne “).

Il ” modello sociale europeo” tra mercato e Costituzione

Vorrei ora utilizzare un altro metro, più sostanziale, per valutare il progetto della Convenzione,
anche se ogni testo di rilievo costituzionale vede un intreccio stretto tra questioni istituzionali e questioni più direttamente riferite alla garanzia dei diritti fondamentali.
Nel suo ultimo intervento di largo respiro sulla Costituzione europea Habermas scrive ([[J. Habermas ” Perché l’Europa ha bisogno… ” cit. ): ” I vantaggi economici dell’unificazione europea valgono come argomento a favore di un’ulteriore sviluppo dell’Unione solo nel contesto di una forza di attrazione culturale che vada bel al di là della dimensione economica. La minaccia nei confronti di una forma di vita…. – caratterizzata dallo stato sociale del dopoguerra, base di benessere e sicurezza- …e l’auspicio che essa venga conservata- pungola a sviluppare una visione dell’Europa futura che sappia nuovamente affrontare le sfide attuali con soluzioni innovative”. In altri termini la sfida è quella di rilanciare, aggiornandole e adeguandole alle radicali trasformazioni dei processi produttivi e degli stili di vita intervenuti dopo la fine degli anni 70, su base continentale quelle istituzioni di mediazione tra le ragioni dell’integrazione sociale e le ragioni dell’integrazione sistemica che conosciamo come welfare state.
La richiesta che- tendenzialmente – sia l’Unione a rispondere della domanda di politiche sociali idonee a riequilibrare le dinamiche di mercato è, peraltro, implicitamente federalista, perché dalla fine dell’Ottocento gli stati sono non solo ” signori” dei trattati internazionali, ma anche ” signori” della solidarietà. L’idea ,come suggerisce ancora Habermas, che l’esclusione sociale sia combattuta a livello europeo dall’Unione attraverso un ” reddito di base slegato dalla situazione occupazionale” è sovversiva della sovranità nazionale almeno quanto il principio della maggioranza qualificata ([[Sulla centralità nel rilancio di un modello europeo di solidarietà del basic income v. J.M. Ferry ” La question de l’ètat europèen” Paris 2000. ). Se si assume che, almeno nel vecchio continente, vi sia un consolidato scambio tra obbligo di fedeltà politica e garanzia delle prestazioni minime sociali ([[V. C. Offe ” Esiste, o può esistere una società europea?” in AAVV ” Sfera pubblica e costituzione europea Roma 2001 ) , questo nesso di legittimità sostanziale verrebbe ridislocato verso l’alto, cementerebbe un vincolo post-nazionale che avrebbe inevitabilmente salutari effetti eversivi delle singole identità statali. Di tale prospettiva storica, in genere condivisa dal giuslavorismo progressista europeo ([[V. il cosiddetto rapporto Supiot ” Au delà dell’emploi “( a cura di A. Supiot) Paris 1999; nonché il Manifesto per un’Europa sociale del 2000 in Riv. Giur. Lav.n. 1\2002 ), è stata offerta, recentemente, una ricostruzione che si avvale di categorie à la Polanyi. Le politiche sociali in Europa ([[S. Giubboni ” Diritti sociali e mercato. La dimensione sociale dell’integrazione europea ” Bologna 2003) potrebbero essere distinte in tre fasi: la prima dominata da un modello di ” embedded liberalism” nel quale si registra un compromesso tra la costruzione di un mercato unico trans-nazionale con il progressivo dispiegamento delle 4 libertà comunitarie e l’edificazione di solidi sistemi di protezione sociale a livello nazionale. I diritti sociali sono incardinati nelle costituzioni dei singoli paesi e l’integrazione economica non compromette l’efficienza e l’autonomia dei welfare states. La seconda fase è quella della crisi e del sovvertimento del primo modello: le leggi del mercato aggrediscono la solidità dei sistemi nazionali di droit social; il diritto della concorrenza comincia ad infiltrarsi nel diritto del lavoro e della sicurezza sociale, indebolendo o sterilizzando le stesse garanzie costituzionali. Questa seconda fase può essere riassunta nella frase secondo cui ” lo stato non è il sovrano, ma ha un sovrano: attraverso i Trattati il sovrano è il mercato”. Il punto di più alto di questa dinamica di autonomizzazione delle regole del mercato sono i vincoli ed i parametri del Trattato di Maastricht che, imbrigliando a monte i bilanci statali, impediscono agli Stati di promuovere politiche sociali, anche se costituzionalmente doverose. L’ultima fase del ” re-embedding-liberalism” vede la faticosa e ancora incerta ricostruzione di un bilanciamento tra ” integrazione negativa” e integrazione positiva attraverso una comunitarizzazione progressiva del diritto del lavoro, il varo di politiche europee di coesione, l’allargamento degli obiettivi dell’Unione, l’ingresso della contrattazione collettiva nel paniere degli strumenti giuridici della Comunità e l’elaborazione della Carta di Nizza. Così come il compromesso del welfare state nazionale si è assestato con la sua consacrazione nelle Carte post-belliche, anche questa fase idealmente dovrebbe terminare con la costituzionalizzazione di un sistema di sicurezza sociale propriamente europeo. Gli studiosi di domani dell’Unione potrebbero così commentare, come fece Polanyi a proposito della reazione nell’ambito degli stati nazionali ad un capitalismo ” autoregolato”:” era inevitabile che la società prendesse delle misure per difendersi”. Questo passaggio induce la nascita di una nuova entità politica federale, anche se si può discutere se questa entità debba ispirarsi al modello del ” federalismo solidaristico” di stampo tedesco nel quale, pur in un quadro di ampia autonomia territoriale e normativa per le componenti ” federate”, si mantengono i tratti istituzionali degli stati moderni o a quello del solidarismo ” cooperativo” che potrebbe recuperare- rispetto alla prima opzione- l’originalità degli organi dell’Unione e mantenere più accentuati tratti di poliarchia e pluralismo istituzionale ([[V. W. Streeck ” Il modello sociale europeo: dalla redistribuzione alla solidarietà competitiva” SM 2000 ).

Il progetto della Convenzione e i diritti socio-economici

Non può negarsi che fra i due ” mali radicali” che affliggono ab origine la costruzione europea- la sua ” frigidità sociale” e il suo ” deficit democratico” ( o comunque la sua incerta forma di governo) il complesso processo di ristrutturazione dell’architettura dell’Unione, si sia incentrato più sul secondo che sul primo.
La dichiarazione di Laeken rivolge alla Convenzione 56 domande che, a parte quelle sul valore giuridico della Carta di Nizza, non sembrano prefigurare alcuna ” rivoluzione” nei criteri di regolazione in campo sociale, ma, nonostante il debole mandato in questa materia, il ” modello sociale europeo” ha finito con l’essere tra i temi centrali della discussione in Convenzione, sin dal momento in cui sono stati riscritti i valori e gli scopi dell’Unione; all’ultima ora non sono mancati colpi di scena e brusche frenate con l’approvazione di soluzioni ” minimaliste” e talvolta regressive.
Un giudizio sui risultati della riscrittura dei Trattati ad opera della Convenzione in questo settore deve essere particolarmente cauto e lontano da ricognizioni solo formali. Molti dei passaggi in avanti che il progetto realizza possono rimanere, come amano dire i giuristi anglosassoni, ” law in books” se non saranno interpretate e messe alla prova da piattaforme e rivendicazioni collettive di livello europeo che si misurino realmente con questa nuova dimensione della regolazione sociale.
Andando per ordine è innegabile che il Preambolo della Costituzione non autorizza in alcun modo a voler continuare a vedere nell’Unione europea un legame per fini fondamentalmente di carattere economico e funzionale. Per quanto il testo sia stato giustamente criticato per il suo ” eclettismo” culturale e per alcuni passaggi ” etnocentrici”, per quanto sia ben lontana da quella ” forma artistica” che si esprime in una ” lingua solenne e vicina alle esigenze dei cittadini, il suo carattere concentrato e la sua capacità di comprendere l’intero orizzonte temporale ( passato, presente e futuro”che secondo P. Haberle([[V. P. Haberle ” il giurista europeo di fronte ai compiti del nostro futuro costituzionale comune” conferenza alla Luiss di Roma del 21.3.2003 leggibile in WWW.luiss.it) riescono ad avere molti Preamboli ( “paragonabili ai preludi e alle ouverture delle opere di Bach”) delle Costituzioni nazionali, il testo lancia il chiaro messaggio che l’Unione è nata e deve svilupparsi ulteriormente per superare i contrasti nazionali tra gli Stati e non solo per realizzare uno spazio affaristico più ampio.
Buona è stata nel complesso l’opera di riscrittura dei valori e degli obiettivi dell’Unione.
All’art.1.2 si afferma che l’Unione si fonda sui valori “di rispetto della dignità umana, libertà, uguaglianza, stato di diritto e rispetto dei diritti umani”. E si aggiunge che questi valori sono comuni agli Stati membri in una società ” fondata sul pluralismo, sulla tolleranza, sulla giustizia, sulla solidarietà e sulla non discriminazione”. L’uguaglianza entra così far parte dei valori ” fondanti ” l’Unione, quei valori il cui rispetto gli organi competenti ( v. art. 1.58) possono pretendere da parte di tutti gli stati membri, ricorrendo – se del caso- a misure piuttosto draconiane nel caso di ” evidenti rischi di violazione grave”.
Anche all’art.1.3 i fini a carattere sociale sembrano oggi addirittura prevalenti rispetto a quelli di tipo economico. Già nel descrivere i secondi gli aggettivi appaiono significativi e innovativi ” l’Unione offre ai suoi cittadini uno spazio di libertà,sicurezza e giustizia senza frontiere interne ed in un mercato unico nel quale la concorrenza è libera e non distorta”, e si adopera “per uno sviluppo sostenibile, basato su di una crescita economica equilibrata e un’economia sociale di mercato fortemente competitiva che mira alla piena occupazione ed al progresso sociale, un elevato livello di tutela e di miglioramento della qualità dell’ambiente”. Quindi una crescita economica non qualsiasi, ma orientata al rispetto dei vincoli di carattere ecologico, ambientalistico e soprattutto sociale .
A ciò si aggiungono fini derivanti dal principio di solidarietà, che si fanno valere su di una dimensione post-nazionale: l’Unione ” promuove la coesione economica, sociale e territoriale, la solidarietà tra gli stati membri” ed ancora ” combatte l’esclusione sociale e le discriminazioni e promuove la giustizia e la protezione sociale, la parità tra uomini e donne, la solidarietà tra generazioni”. Non v’ è dubbio che vi è stato un riassestamento nei fini dell’Unione: al lettore e all’interprete non è lecito più inferire che le sue mete primarie siano a carattere economico: l’Unione sembra avere un ” programma ” molto vicino a quello perseguito dagli enti politici a competenza generale, come sono gli Stati. Certo, quando si parla di ” mercato unico” si usa l’espressione ” l’Unione ” offre” , altrove semplicemente ” promuove”: tuttavia lo stesso articolo precisa che gli obiettivi ” sono perseguiti con mezzi adeguati”. Comunque per l’esclusione sociale e le discriminazioni, ad esempio, si afferma sic et simpliciter che l’Unione le “combatte”.
L’altra novità è l’inclusione della Carta di Nizza nella Costituzione che compone l’intera seconda parte. Si tratta di un passaggio ” epocale” che avrà effetti simbolici e istituzionali imprevedibili. L’inserimento del Bill of rights di Nizza nel Trattato fondamentale rafforza – quantomeno in tendenza- la reinterpretazione delle Costituzioni nazionali come costituzioni “parziali” ([[P. Haberle ” Dallo stato nazionale all’Unione europea: evoluzioni dello Stato costituzionale ” Dir. eur. e comp. N.2\2002t.). Quanto resisterebbero, allora, gli stati al principio ” patere legem quam ipse fecisti”([[Sul punto rinvio al mio ” La Carta dei diritti fondamentali: dal progetto di un ” modello sociale europeo” alla costituzionalizzazione dell’Unione?” in AAVV ( a cura di H. Friese,A. Negri, P. Wagner ) “L’Europa politica: ragioni di una necessità” Roma 2002.) che li obbliga, come sottoscrittori della Carta, ad un rispetto in via solidale con l’Unione dei medesimi diritti? Certo l’inserimento della nuova clausola all’art. II.52 , voluta dalla Gran Bretagna, che distingue, nell’ambito delle prerogative individuali e collettive della Carta, tra diritti in senso proprio e ” principi” ai fini della tutela giurisdizionale ha colto tutti di sorpresa ed è inaccettabile, soprattutto sul piano culturale. Nonostante si sia, con questa clausola, voluto umiliare la cultura garantistica europea e rimettere in discussione quanto deciso nella prima Convenzione, c’è da dubitare che l'” astuzia ” inglese riesca nell’intento di riservare ai diritti socio- economici un rango inferiore sulla base della loro presunta ” programmaticità”. Non solo questa riclassificazione contrasterebbe in moto plateale con quanto stabilito dalla prima Convenzione ma tutti i diritti sociali ( e del lavoro ) sono definiti esplicitamente ” diritti” e quindi ad una loro lettura in termini di ” principi” si oppone il dato testuale. Infine sarà la Corte del Lussemburgo a dover operare una chiara distinzione e in molti si aspettano che verrà rimossa per lo meno in campo sociale, implicando un ritorno a teorie costituzionali ottocentesche. ([[V. G. de Burca ” Fundamental rights and citizenship ” in ” Ten reflexions on the Consitutional Treaty for Europe” ( a cura di B. De Witte EUI Fiesole 2003 ).
Non credo sia destinato a miglior fortuna anche l’ultimo diktat dei rappresentanti del governo britannico: l’inserimento nel Preambolo della Carta dell’indicazione per cui questa sarà ” interpretata … alla luce delle spiegazioni elaborate sotto l’autorità del Praesidium della Convenzione che ha redatto la Carta”. L’obiettivo di tale stravagante precisazione sembra essere quello di frenare la creatività giurisprudenziale, ma non vi sono ragioni per pensare che l’importanza di queste ” spiegazioni” diventi più rilevante di quella che hanno i lavori parlamentari o le relazioni alle leggi nell’interpretazione degli atti legislativi. Altrimenti, come ha commentato R. Badinter, si giungerebbe all’assurdo di equiparare scritti di anonimi funzionari a norme elaborate nel corso di mesi di discussione in un’adunanza ad hoc da rappresentati ufficiali degli Stati e dei Parlamenti nazionali ed europeo.
L’incorporazione della Carta nel Trattato fondamentale consentirebbe, quindi, di superare la protezione ” di riflesso” dei diritti socio-economici, non come prerogative soggettive in sé e per sé perfette ed esigibili ma come effetto indotto, come epifenomeno, della costruzione e del mantenimento di un mercato unico. Inoltre quanto sarebbe possibile arginare un circolo virtuoso giurisprudenziale tra giudici nazionali, Corti nazionali e le due Corti europee nel dare senso e significato comune alle norme della Carta?
Molto dipenderà dalla committenza sociale, da come sindacati, associazioni, partiti di sinistra, ONG sapranno far decollare una sfera pubblica europea che esprima un’attesa comune di giustizia sociale ([[Sul ruolo dei movimenti sociali di motore nel processo di costituzionalizzazione dell’Unione v. G. Allegri ” I nuovi movimenti sociali nello spazio comune europeo” in Democrazia e diritto n.12\2003; T. Negri ” La frattura dell’ordine globale” in Global n.2\2003 ). Sarebbe vitale da un lato l’elaborazione di piattaforme giurisprudenziali europee e dall’altro che i giudici nazionali effettivamente si identifichino con la loro funzione di organi comunitari e di interpreti del diritto sovranazionale, usando del loro terribile potere di disapplicazione del diritto interno in contrasto con quello di matrice europea.
Sull’ attitudine della Carta a riempirsi di effettivi contenuti garantisti ed emancipatori giova fare qualche esempio.
Il primo è offerto da un recente caso avanti alla Corte dell’Unione chiamata a giudicare se l’autorizzazione data dal governo austriaco ad una dimostrazione di piazza avesse violato il diritto di un imprenditore alla libera circolazione delle merci. L’Avvocato generale, con ampio riferimento alla Carta, ha sostenuto che l’ordinamento comunitario deve contemperare le libertà economiche e i diritti fondamentali e ha concluso che la preferenza nel caso in esame doveva essere accordata alle libertà di assemblea e di espressione.Come ha recentemente notato O. De Schutter ([[O. De Schutter ” la garanzia dei diritti e principi nella Carta dei diritti fondamentali ” in ” Diritti e costituzione…” . cit.
) uno degli effetti, indiretti, della ” costituzionalizzazione ” della Carta sarà quello di autorizzare ” gli Stati membri a respingere talune rivendicazioni formulate dagli operatori economici in nome delle libertà fondamentali di circolazione e di concorrenza nella misura in cui le legislazioni nazionali.. abbiano come finalità la tutela dei diritti sociali enunciati nella Carta”.
Un secondo esempio deriva da un brillante articolo di A. Supiot ([[A. Supiot ” Revisiter les droits d’action collective ” in Droit social n.7/8 2001 ). Sostiene l’insegne giuslavorista francese che la norma della Carta ( art. 28) che attribuisce ai lavoratori il diritto di ricorrere ad “azioni collettive” per la difesa dei loro interessi, compreso lo sciopero ha una portata ben più ampia dell’attività rivendicativa nel luogo di lavoro e quindi copre iniziative di ” sciopero del consumo” e di boicottaggio nei confronti delle imprese ( sweat-shops) che non rispettano le clausole sociali o le norme dell’OIL, o ancora di ” sciopero urbano” per la rivendicazione di servizi. Questo allargamento della visuale e delle modalità del conflitto sociale è per Supiot , in tempi di globalizzazione, un progresso irrinunciabile che la Carta ora legittima depurando da ogni carattere di illegittimità ( civile o penale ) azioni nelle quali il lavoratore lotta anche come cittadino consumatore o attivo partecipante ad una comunità territoriale.
Ancora è prevedibile che la Carta sarà sistematicamente invocata per ottenere la generalizzazione a tutte le attività eterodirette dei diritti fondamentali del lavoro cui si è già con grande coraggio orientata negli ultimi anni la Corte del Lussemburgo a partire dal caso dei lavoratori a termine dello spettacolo inglesi ([[E’ la causa C-173-99 Bectu| Secretary of State for Trade and Industry ) .
In effetti il riconoscimento alla Carta di una piena vigenza giuridica si inserisce in un percorso, forse tortuoso, ma degno della massima attenzione.
Assemblando le tre componenti del mosaico- direttive-sentenze e Carta- il modello che faticosamente sta delineandosi è quello di un aggiornamento progressivo dei sistemi di welfare che accantoni la centralità – recependo la migliore letteratura socialdemocratica sull’argomento da U. Beck a A.Giddens, da Z. Baumann a C. Offe – del lavoro subordinato di tipo tradizionale, integrando saggiamente l’eliminazione delle forme di discriminazione nel contratto – nella prospettiva di una riforma estensiva della subordinazione di carattere generale per la quale oggi forse i tempi non sono ancora maturi- con interventi promozionali contro le esclusioni nel mercato( v. il basic income, il diritto alla formazione permanente, la direttiva sui congedi parentali). Nel suo insieme l’Unione sembra avere fatto tesoro delle indicazioni del rapporto Supiot sul futuro del diritto del lavoro in Europa del 1999 ([[V. ” Au delà dell’emploi” ” cit. ) nel quale si difende una strategia garantistica per ” cerchi concentrici,”che mira ad estendere a tutte le forme di attività produttiva umana un paniere di diritti fondamentali con un adattamento, dove necessario, alla specifiche modalità contrattuali. ( v. il telelavoro o il lavoro interinale). Questa svolta ( si è parlato di uno ” statuto del lavoro post-fordista”) comporta l’individuazione nella cittadinanza del fulcro dei diritti sociali e la conservazione di una tutela ” lavoristica” più stringente ed esigente per chi opera in condizioni di particolare eterodirezione.
Qualche spunto nella giusta direzione si trova all’art. 1.47 che afferma “l’Unione riconosce e promuove il ruolo delle parti sociali a livello dell’Unione, tenendo conto della diversità dei sistemi nazionali; essa facilita il dialogo tra tali parti, nel rispetto della loro autonomia”. Purtroppo, secondo le previsioni, la terza parte della Costituzione non sembra aggiungerà in concreto nulla rispetto all’esistente, quanto a procedure e poteri di negoziazione.
Il discorso sulle competenze in materia sociale deve essere, invece, radicalmente critico.
Nel corso dei lavori della Convenzione è emerso una strenua opposizione di alcuni paesi ad una estensione di queste oltre i confini raggiunti dal ” capitolo sociale ” a Nizza con l’istituzione di 6 nuovi settori di intervento. Tuttavia si è pensato che si fosse, almeno, raggiunto un consenso per superare il principio di unanimità che rende spesso impossibile o ritarda in modo abnorme l’adozione di politiche sociali dell’Unione: negli ultimi giorni la proposta è però cambiata e i settori esclusi dal criterio della maggioranza si sono moltiplicati in modo allarmante. Inoltre sono stati ribaditi i tradizionali tabù del ” capitolo sociale” dell’Unione: retribuzioni, sciopero e diritto di associazione. Si tratta ancora di un costo spaventoso pagato agli inglesi: il restraint imposto all’Unione sulla regolazione dei presupposti della contrattazione collettiva ( diritto di associazione e conflitto sindacale) porta all’avvitamento su se stesse delle discipline che provengono dall’Unione per mancanza dei supporti sindacali su cui dovrebbero poggiare. Il sistema del coordinamento aperto, in mancanza di un oggetto negoziale obbligatoriamente in gioco almeno sulle prestazioni minime e nella indeterminatezza e fluidità dei soggetti collettivi coinvolti a forzare la volontà degli stati, non sembra potere arrivare ad uno sguardo di insieme che connetta politica economica e fiscale, politica sociale, diritto del lavoro.
Non basta al decollo di un ” modello sociale” il pur importante miglioramento del livello di protezione giurisdizionale dei diritti individuali e collettivi. Occorrerà forzare la camicia di Nesso nel quale è ancora racchiusa la politica sociale europea e che costituisce la sua principale disfunzione: l’attuale incoerente ripartizione delle competenze; quelle di politica economica ( quindi la predisposizione dei mezzi) in capo agli stati ma con quelle monetarie requisite a livello sovranazionale, una sorta di comproprietà confusa in materia di welfare e sicurezza sociale ( compresa la lotta all’esclusione) ed una comunitarizzazione strisciante della disciplina lavoristica indotta, soprattutto, dal mantenimento del mercato comune. Questa mancata saldatura tra i vari livelli di intervento rende difficilissimo passare da un modello di integrazione ” negativa” ad un modello ” positivo”, da un’armonizzazione reattiva ad una armonizzazione coesiva. Gli stati, gelosi dei loro modelli di welfare, riducono l’intervento dell’Unione ad un puntello secondario e privo di originalità declinando il principio di ” sussidarietà” come ” subalternità”. Inoltre i vari piani ( che la Convenzione ha mantenuto divisi) mal si prestano ad essere colti e disciplinati separatamente essendo interdipendenti: la politica dell’Unione ha finito con l’essere un’ idra a mille teste senza un orientamento generale: una macchina che necessita una revisione permanente per la quale è stata usata la metafora della nave che viene riparata mentre sta navigando. Un’opera di mero coordinamento aperto tra le politiche economiche nazionali è tutto quello che i federalisti sono riusciti a strappare alla Convenzione per rompere questo scenario di impotenza, ma è veramente troppo poco.
I limiti del progetto per quanto riguarda il decisivo piano delle competenze dell’Unione fanno prevedere che per ragioni di sostanza-e non solo di organizzazione dei poteri e di regole di rappresentanza – quella sfera pubblica europea il cui storico ingresso nello scenario politico continentale è stato avvertito in modo così eclatante il 15 febbraio dovrà, temo, rivendicare il diritto di proseguire molto al di là del compromesso raggiunto dalla Convenzione il ” folle volo” della costruzione di una Europa politica ( che in primis non può che essere un’Europa sociale), senza
però liquidare a quei passi in avanti, in sé non trascurabili, che la stessa Convenzione ha faticosamente raggiunto e chissà se gli Stati vorranno ratificare.