Version originale italienne complète de art1798paru dans le numéro 19 de Multitudes.
Ce texte a été publié dans le recueil collectif I confini della libertà. Per un’analisi politica delle migrazioni contemporanee (DeriveApprodi 2004)
A più di tre anni dalla pubblicazione di Impero negli Stati uniti, vogliamo discutere di alcune questioni specifiche relative a migrazioni e lavoro, anche se non si può certo dire che questi temi siano stati al centro della ricezione dell’opera. Quasi nessuna delle repliche spesso polemiche ai più recenti lavori di Michael Hardt e di Antonio Negri è priva di un riferimento ormai già standardizzato ai lavori di Giorgio Agamben, che nel frattempo hanno quasi assunto lo statuto di contro-Impero. È sorprendente la centralità della figura delle migrazioni nei ragionamenti di Hardt/Negri e di Agamben, sebbene su questo punto essi divergano.
Agamben parla di migrazioni in senso metonimico: le considera – nella misura in cui ne fa una modalità di inclusione nei campi – la materializzazione storica di una matrice della sovranità sulla vita e sulla morte. In Impero, invece, la parabola dello «spettro delle migrazioni» si aggira come una potenza spazializzata della permanente liberazione di mobilità. Entrambe le figure devono la propria posizione centrale alla straordinaria forza dirompente delle attuali migrazioni transnazionali, ma appaiono nello stesso tempo indeterminate dal punto di vista analitico. Si può addirittura sostenere, anticipando, che la centralità delle migrazioni nei libri Homo sacer e Impero è paradossalmente di tale evidenza, che il silenzio su questo tema nella loro ricezione risulta persino bizzarro.
Un sintomo ulteriore di questo tipo di ricezione si può riscontrare nell’assenza nel dibattito su lavoro immateriale e biopolitica di ogni discorso sulle conseguenze analitiche che ne derivano per il complesso di migrazioni e lavoro. Ritorneremo più avanti su questo punto.
Giorgio Agamben vs. Negri/Hardt come poli di un opposto orientamento: lo spettro nel campo e lo stato di eccezione delle migrazioni
Giorgio Agamben analizza il rapporto tra sovranità, stato di eccezione e campo, per riflettere sul significato del campo all’interno di un ordine politico mutato. Il suo interesse è rivolto all’analisi del politico sullo sfondo dell’attuale crisi della sua rappresentazione, cioè precisamente all’analisi di questo nuovo spazio politico che si apre nel momento in cui il sistema politico dello Stato-nazione entra in crisi. Egli analizza il modo in cui in esso muta il modo di funzionare del potere e cerca di articolare dal punto di vista teorico la nuova definizione del rapporto tra sovranità e territorio. Secondo Agamben la struttura dello Stato-nazione che abbiamo conosciuto finora, fondata sulla connessione funzionale di tre elementi – l’ordinamento giuridico dello Stato, il territorio corrispondente e l’appartenenza dei cittadini alla rispettiva nazione –, si sta dissolvendo. Dallo studio di questo processo egli ricava un modello di potere che cerca di tenere insieme sia il modello giuridico-istituzionale del potere, cioè la concezione della sovranità e dello Stato, sia quello biopolitico, vale a dire il disciplinamento dei corpi.
Obiezioni importanti sono state sollevate sia contro la sua idea di biopotere sia contro quella di sovranità[[Thomas Lemke obietta che focalizzando la sua argomentazione sui meccanismi politico-giuridici, la figura della biopolitica rappresenta semplicemente l’altra faccia, nascosta, della sovranità politica, ovvero il suo fondamento esistenziale: «mentre in Agamben il biopotere rimane negativamente riferito alla forma della sovranità, in Foucault esso rappresenta un insieme di nuove tecniche di potere che operano accanto e in contrasto con il potere della sovranità. In questo modo possono essere incluse nell’analisi anche forme di esclusione sociale e di sfruttamento economico che esistono nonostante la garanzia dell’uguaglianza giuridico-formale» (Lemke 2002, p. 622). Étienne Balibar critica l’utilizzazione dell’idea oggi ricorrente di “crisi della sovranità”: «in ogni caso questa formulazione viene usata per lo più in senso restrittivo, perché da sempre il concetto di sovranità viene identificato con quello di sovranità nazionale, e in pari tempo si stabilisce un parallelismo tra la crisi della sovranità e lo sviluppo di spazi politici sovranazionali, transnazionali o post-nazionali» (Etienne Balibar 2004, p. 220).. Il che ha conseguenze di vasta portata sulla plausibilità del rapporto, da Agamben definito centrale e costitutivo, tra lo stato di eccezione come categoria giuridica e il campo come sua concretizzazione spaziale. La definizione schmittiana di sovranità come potere di «decidere sullo stato di eccezione» è diventata un luogo comune. Lo stato di eccezione come dimensione astrattamente giuridica necessita però di un luogo in cui poter diventare concreta: per Agamben questo luogo è il campo. Nel campo lo stato di eccezione, che era essenzialmente una sospensione temporanea dell’ordine, riceve una localizzazione spaziale permanente. I campi sono sfere di eccezione che all’interno di un territorio si trovano al di fuori dell’ambito di validità della legge. Il campo è inoltre il luogo in cui la dimensione biopolitica del potere sovrano diventa produttiva. Qui esso si esercita su soggetti internati: negando loro – come per esempio nei campi profughi e in quelli di detenzione – ogni status giuridico o politico, il potere li riduce alla loro mera esistenza fisica. Sostenendo che questo stato di eccezione temporaneamente o territorialmente delimitato diventa nuova norma, Agamben descrive il campo come luogo in cui dall’assenza di diritto che lo connota viene creato nuovo diritto. È una sorta di catalizzatore che dall’abolizione dell’ordine conduce a un nuovo ordine giuridico e spaziale permanente. La sospensione dell’ordine si trasforma così da misura provvisoria in tecnica permanente di governo. Lo stato di eccezione che si manifesta nelle diverse forme dell’extraterritorialità diventa un nuovo regolatore del sistema politico.
Sandro Mezzadra osserva criticamente che il lavoro non svolge alcun ruolo nella concezione di Agamben, e definisce la figura del campo nella sua attuale configurazione come una sorta di camera di compensazione, la cui funzione consiste nel disseminare settorialmente, localmente ed extraterritorialmente la pressione che opera sul mercato del lavoro: «questi luoghi sono l’altra faccia della nuova flessibilità del capitalismo, sono luoghi di repressione statale e metafora generale dei controlli dispotici sulla mobilità della forza lavoro [… Se, come spesso viene sottolineato, il capitalismo globalizzato fa sorgere nuove forme della flessibilità, allora i movimenti dei migranti mostrano il volto soggettivo di questa flessibilità. Nello stesso tempo i movimenti migratori vengono sfruttati dal capitalismo globalizzato, e in questo sistema di sfruttamento i centri d’internamento svolgono un ruolo decisivo» (Mezzadra 2003, p. 2).
Hardt e Negri replicano che Agamben sopravvaluta la figura del campo, e non coglie lo spettro che circola nei suoi labirinti homo-centrici «per denominare il limite negativo dell’umanità e per mostrare le condizioni, più o meno eroiche, della più estrema passività umana negli abissi politici del totalitarismo moderno» (Hardt/Negri 2002, p. 340). Il “limite positivo” dell’umanità, si potrebbe controbattere, si costituisce «sulla superficie della società imperiale» come cooperazione sociale: si danno qui «le manifestazioni produttive della nuda vita» (ibidem). Parlare di una separazione biopolitica in zone della vita e della morte, tra le quali sussisterebbe una linea di demarcazione che si estende progressivamente, non significa solo enfatizzare il lato totalitario della globalizzazione. La globalizzazione va piuttosto intesa, così argomentano Hardt e Negri, come passaggio; non nel senso di una “transizione verso qualcosa”, ma nel senso di un modo di produzione, o della simultaneità di diversi modi di produzione in cui tanto le condizioni della stabilità quanto quelle della fragilità del presente coincidono. In questo contesto la figura del biopotere assume significato paradigmatico: indica l’attuale trasformazione della funzione della politica della popolazione in biopolitica. In essa si tratta di controllare la produzione e riproduzione della vita stessa. Le misure statali di regolazione della popolazione e l’opposizione contro di esse operano sul medesimo terreno biopolitico: «nella storia della modernità, la mobilità e le migrazioni della forza lavoro hanno destabilizzato le condizioni disciplinari a cui erano sottoposti i lavoratori» (ivi p. 203). Esemplari sono a questo proposito i processi di criminalizzazione dei migranti o la prassi delle espulsioni dei profughi. È questo il contesto in cui fa la sua comparsa la frase decisiva: «lo spettro delle migrazioni di massa si aggira per il mondo» (ibidem). Se si prende la frase alla lettera, ci si autocatapulta nel violento spazio di associazione del Manifesto del partito comunista, alla luce del quale una serie di obiezioni critiche e di prese di distanza nei dibattiti sul contro-Impero appare in modo riflesso giustificata. Sembra essere questo il luogo in cui la sottovalutazione delle migrazioni nella ricezione di Impero dovrebbe trovare la propria smentita. L’ambivalenza ironica del richiamo si relativizza se si considera in quale capitolo esso compare; non è casuale che il capitolo si intitoli “Intermezzo: il controImpero”. È collocato esattamente nel mezzo tra la seconda parte, “Passaggi di sovranità”, e la terza, “Passaggi di produzione”, come elemento di collegamento per comprendere la produzione biopolitica. Nell’“Intermezzo” gli autori di Impero fanno due ammissioni: la prima è che fino a questo punto del loro studio non erano nella condizione di fornire «alcuna indicazione coerente circa il tipo di soggettività politiche capaci di contestare e di destabilizzare l’Impero, per la ragione che queste soggettività faranno la loro comparsa solo sul terreno della produzione» (ivi p. 197). La seconda è che le figure attraverso le quali pensano i modi della resistenza, sono figure della mobilità: nomadismo, diserzione, esodo. Se letta nella cornice di questa ricontestualizzazione, la frase appare come una parafrasi enfatica dei lavori di Yann Moulier Boutang sull’“autonomia delle migrazioni”. Nel suo studio Dalla schiavitù al lavoro salariato (1998), questi ha mostrato come le forme del lavoro non libero e del lavoro schiavistico abbiano storicamente svolto un ruolo fondamentale per l’accumulazione di capitale, e come ancora lo svolgano. Lungi dall’essere residui o fenomeni transitori che la modernità spazzerà via, questi regimi del lavoro erano e sono costitutivi dello sviluppo capitalistico: sono il risultato della necessità di controllare, limitare e localizzare la mobilità della forza lavoro.
Divisione del lavoro e composizione della classe operaia
L’interpretazione della biopolitica fornita da Negri e Hardt, sviluppata anche a partire dalla critica della concezione di biopotere di Foucault (cfr. Hardt 2003, p. 221), è essa stessa storicamente derivata, o resa in generale possibile, dalla critica della divisione del lavoro. A questo punto è necessaria una ricognizione genealogica della storia delle lotte al cui interno dalle posizioni dell’operaismo si è infine sviluppata la svolta biopolitica.
L’operaismo ha elaborato il modello della composizione di classe con cui è stato nuovamente possibile mettere in discussione le questioni inerenti alla divisione o all’unità della classe operaia. Questo orientamento ci sembra importante per il rapporto strutturale tra migrazioni e lavoro, perché offre strumenti di analisi con cui possono essere meglio comprese le modalità attraverso le quali si realizza la sovradeterminazione politica dei processi economici di allocazione della forza lavoro. La prospettiva che ne risulta consente inoltre di affrontare la questione delle migrazioni come questione politica, al di là delle categorie neoclassiche o umanistiche.
È del tutto evidente che le migrazioni si verificano in condizioni che le costituiscono, e con esse costituiscono i migranti, come fenomeno particolare e specifico. Non è un caso che in Germania non vi sia stato gruppo più studiato dei migranti; il regime delle migrazioni ha infatti creato circostanze tali che hanno finito col costituirle come problema sociale. È questa la materialità al cui interno il razzismo moderno in Europa si è potuto affermare come razzismo contro i migranti.
Operaismo
All’inizio degli anni Sessanta, sotto la denominazione di “operaismo”, alcuni intellettuali dissidenti italiani attaccarono il partito comunista e la sua fede nello sviluppo teleologico dei rapporti economici. Era il rifiuto della consuetudine del marxismo ortodosso di derivare lo sviluppo della classe operaia dall’analisi dello sviluppo capitalistico (cfr. Tronti 1974; Balestrini/Moroni 2003; Alquati 1975). Il marxismo ufficiale, secondo questi autori, aveva trasformato la teoria della lotta di classe in scienza economica e aveva ridotto il proletariato a mero esecutore della sua funzione economica. A questa concezione essi opposero l’idea dell’inchiesta militante. Uno dei risultati di queste inchieste, che fu importante soprattutto per il futuro movimento dell’autonomia, era l’osservazione di nuove modalità di comportamento e di lotta in cui trovava espressione un tipo nuovo di operaio: l’operaio-massa. Erano però soprattutto le forme stesse di lotta scoperte nelle inchieste a porsi contro le organizzazioni tradizionali della classe operaia. Esse contribuivano all’unificazione politica della classe e alla sua nuova composizione, inaugurando nuove prospettive politiche. Invece di avanzare richieste per un salario più alto, gli operai cercavano di sottrarsi al dettato della divisione taylorista del lavoro, dandosi malati, allontanandosi dal posto di lavoro durante l’orario o sabotando la produzione. L’automazione della produzione fu così interpretata da autori come Antonio Negri, Raniero Panzieri e Mario Tronti come reazione politico-economica delle imprese capitalistiche: invece che all’incontrollabile e costosa forza lavoro la produzione doveva essere sempre di più affidata alle macchine.
A partire dalle pratiche dell’assenteismo e del sabotaggio il movimento dell’autonomia elaborò il concetto di esodo. La sua critica era rivolta anche contro il tipo di vita che questo “rapporto normale di lavoro” comportava: soprattutto dopo il 1968 ci si ribellava alla reclusione di fabbrica, alla separazione tra tempo di lavoro e tempo di vita, tra casa e lavoro, all’idea di lavorare per tutta la vita dalla 9 alle 5. Gruppi come Potere Operaio e Lotta Continua elaborarono il modello dell’operaio sociale complessivo, secondo il quale tutti gli uomini, indipendentemente dal fatto di stare o meno alla catena di montaggio, erano coinvolti nella produzione di valore e dovevano essere conformemente retribuiti.
L’espansione del concetto di lavoro può essere anche ricavata dalla critica femminista alla limitazione del lavoro politico all’operaio salariato maschio. Quando nel 1972 Potere Operaio si sciolse, le donne che militavano in questa organizzazione avevano già da tempo deciso di abbandonarla per fondare Lotta Femminista (cfr. Dalla Costa 1973). Quest’ultima diede vita agli inizi degli anni Settanta a una campagna per il “salario al lavoro domestico”. La richiesta si fondava sulla convinzione che il lavoro domestico fosse parte del lavoro sociale complessivo, che non produce solo valori d’uso, come la sinistra tradizionale riteneva. Anche la separazione tra lavoro produttivo e lavoro improduttivo si rivelava in quest’ottica come obsoleta; divenne infatti chiaro che vi erano forme di lavoro – spesso femminilizzate –, come per esempio lo stesso lavoro domestico, il lavoro affettivo o di cura, che producevano la società stessa (Dalla Costa 1973; Hardt/Negri 1995).
Era in discussione se la questione davvero rilevante fosse quella di introdurre questo “salario” per via istituzionale, parlamentare, o se non fossero invece più importanti le conseguenze che la richiesta aveva sul terreno dell’organizzazione. Nel 1974 la campagna condusse a una delle prime grandi mobilitazioni del movimento delle donne. Quando quello stesso anno Lotta Femminista si sciolse, l’azione venne sì portata avanti da un comitato, ma con il suo limitarsi a una richiesta formale di salario perse la sua valenza organizzativa (Panagiotidis, 2003).
Ciò che per noi è qui rilevante è però il momento dell’esodo, e la sua combinazione con una concreta forma politica di lotta; esodo che dovrebbe avere come conseguenza un’estensione delle lotte. La richiesta di un salario per il lavoro domestico ha reso per la prima volta sostenibile la tesi che vede nel lavoro sociale complessivo, nel lavoro affettivo, immateriale, il nuovo centro della creazione di valore, nella misura in cui l’ha messo in relazione con la riproduzione della forza lavoro. Si affermò in seguito un movimento al cui interno gruppi sociali si impegnavano sempre più intensamente in una lotta che metteva in discussione la centralità della fabbrica per l’elaborazione dei concetti politici. Nell’idea di lavoro sociale complessivo tutte le possibili attività erano intese come lavoro e si cominciò a fare anche della vita quotidiana un tema di organizzazione politica. La scoperta dei bisogni sociali procedeva dalla massa, questa era la tesi, e non dai capi dei complessi industriali. La fuga dalla fabbrica, però, rappresentava nel contempo un processo ulteriore di mercificazione. Il prezzo di un esodo senza trasformazione sociale era infatti l’estensione della fabbrica alla società, come Hardt e Negri la definiscono (Hardt/Negri 1995, p. 16).
I critici della richiesta di salario per il lavoro domestico vi hanno soprattutto visto una cementazione della già sussistente divisione sessista del lavoro, che avrebbe vincolato le donne al focolare domestico anziché promuoverne l’emancipazione. Ma in realtà la richiesta è innanzitutto una critica di questa stessa divisione del lavoro, che cerca di superare i limiti di una mera strategia di uguaglianza. Essa riflette la divisione sessuata del lavoro come risultato del lavoro di fabbrica e vuole attaccare anche questa. Distinguendosi su questo punto da una tradizione interna al marxismo, essa non analizza la divisione del lavoro nei termini di una storia eterna della separazione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale secondo cui quella sessuata sarebbe soltanto una delle sue emanazioni.
Già in Marx la questione della divisione del lavoro era tendenzialmente ridotta alla separazione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale o alla separazione tra lavoro e comando: «la divisione del lavoro diventa una divisione reale solo dal momento in cui interviene una divisione fra il lavoro manuale e il lavoro mentale» (Marx, 1972, p. 30). Soprattutto la tradizione marxista ha ridotto il tema della divisione del lavoro alla separazione tra lavoro e non-lavoro, tendenzialmente coincidente con quella tra capitalisti e operai. Tutte le altre divisioni del lavoro vengono pensate e sussunte sotto le categorie di questa separazione fondamentale, compresa la divisione sessuata del lavoro. Tutte le forme di segmentazione di classe e tutte le lotte interne alla classe operaia rimangono di conseguenza indeterminate[[Le strutture di divisione o frammentazione della classe erano politicamente sovradeterminate già nel XIX secolo. Quando, per esempio, la componente maschile della classe operaia ottiene, lottando contro la cosiddetta “concorrenza sporca” di donne e bambini, il salario di famiglia, realizza con ciò la borghesizzazione della famiglia proletaria, che a sua volta diventa uno strumento morale di lotta dei partiti operai, che la società borghese vuole abbattere con i suoi specifici ideali (Bock/Duden 1977). Già l’affermazione di questa specifica divisione sessuata del lavoro in relazione al processo di produzione non è spiegabile né in termini naturali ricorrendo alle necessità tecniche dell’organizzazione del lavoro né a partire dalla separazione tra lavoro mentale e lavoro manuale., perché l’idea di sviluppo lineare del modo capitalistico di produzione era collegata alla tesi dei suoi effetti polarizzanti e nello stesso tempo omogeneizzanti sulla struttura delle classi.
Con la nozione di “composizione di classe” dell’operaismo, però, la questione della frammentazione della classe operaia dal punto di vista delle migrazioni e dei rapporti di genere è diventata produttiva per una politica di emancipazione. Invece di considerare la divisione orizzontale del lavoro come questione tecnica, la “composizione tecnica del capitale” può essere interpretata come consolidamento di un rapporto di forza tra le classi. All’interno della classe operaia esistono così non solo frazioni diverse, ma essa conosce una continua ricomposizione politica cui il capitale reagisce con una altrettanto continua ristrutturazione del processo lavorativo. La continua ricomposizione della classe viene descritta dagli operaisti come processo di circolazione delle lotte. Nella nostra ottica questo concetto ci offre un adeguato punto di partenza per affrontare il tema della divisione del lavoro e quindi dei rapporti di produzione in una prospettiva che ha il pregio, da un lato, di non ridurre tutto, in termini di teoria del dominio, allo schema binario tra comando e non-comando, dall’altro di non presentarsi come una descrizione ottimistica di sociologia del lavoro dei processi di trasformazione del settore terziario. Ciò che qui invece rileva è introdurre un piano teorico che non si fondi su una concezione tecnicistica o evoluzionistica della divisione del lavoro, né che concepisca la divisione del lavoro come qualcosa di semplicemente costruito socialmente.
La divisione del lavoro non va intesa in senso costruttivistico, ma piuttosto come ideologia nel senso che a questo termine dà Althusser: essa è sempre già presente. L’elemento decisivo è quindi la disposizione di volta in volta mutevole dei suoi elementi interni e dei loro confini: quali lavori (e non-lavori o divisioni del lavoro), quali dinamiche sociali essi evocano, e quali tipi politici di rappresentazione sono in grado di articolare. Con la prospettiva biopolitica, così come emerge tra gli altri in Hardt e Negri, muta la valenza analitica della posizione occupata dalla divisione del lavoro. L’impressione è che Hardt e Negri, con la loro insistenza sul termine “comando”, finiscano però col fornire un’analisi ontologica piuttosto che un’analisi materialistica in senso classico. A nostro giudizio, invece, si tratta di non fornire più un’analisi per così dire tecnica dei processi di lavoro, da cui trarre poi conclusioni in termini di analisi di classe sulla conformazione dello Stato. Ci sembra politicamente più interessante porre al centro dell’attenzione la trasformazione, a vantaggio del lavoro affettivo, degli elementi dominanti nell’articolazione interna della divisione del lavoro, senza ricondurla allo schema binario della divisione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale. Questo schema binario, infatti, incentra il politico sullo Stato come materializzazione in ultima istanza di ogni divisione del lavoro. Se si vuole evitare di riprodurre lo schema statalismo vs. anti-statalismo e le implicazioni che ne derivano per la prassi politica[[Il riflesso di statalismo e anti-statalismo che trova in qualche modo articolazione nell’attuale pseudo-opposizione tra black bloc e Attac, per fare solo un esempio, costituisce un’aporia fondamentale nell’attuale ridefinizione della teoria e della prassi della sinistra globale. Entrambi i poli di questa contrapposizione, sostenitori della sovranità e critici della sovranità, pensano il politico come rappresentanza. Richiudono così lo spazio di pensabilità di una forma a-statale del politico che era stato aperto con le lotte del più recente passato., questa la nostra tesi, l’analisi deve adottare la prospettiva di una politica a-statuale, il cui referente non è più la presenza della classe operaia nello Stato, ma che è piuttosto orientata a nuove forme di rappresentanza e di articolazione politica, che possono essere comprese attraverso il concetto di moltitudine solo in via preliminare. Il che ha però delle conseguenze anche sulla nozione di composizione di classe. Per l’uso che noi facciamo di questo concetto è più importante il fattore della circolazione delle lotte, meno importante è invece la prospettiva che riduce queste lotte a una dualistica lotta di Titani tra capitale e lavoro. Ci si deve piuttosto chiedere su quale terreno si svolgono le lotte, quali sono le loro forme e come si manifesta in esse il politico.
Che significato ha tutto ciò per la comprensione dell’attuale costellazione di lavoro e migrazioni? Uno sguardo al dibattito sociologico sulla “substratificazione” dei migranti, da una parte, sul loro ruolo come “esercito di riserva”, dall’altra, può aiutarci a chiarire questo rapporto. Invece di porre all’ordine del giorno il tema della (dis)-integrazione della forza lavoro migrante e quello connesso relativo a come essa sia parte dello Stato nell’ottica di un rapporto materiale di forze, cerchiamo, con il ricorso al concetto di mobilità, di localizzare il terreno della lotta all’interno delle separazioni della divisione del lavoro, tanto a livello globale quanto a livello regionale e nazionale. In questo modo vogliamo anche rendere possibile un’articolazione politica a-statalistica del rapporto tra Stato, rapporti di produzione e forza lavoro.
Due, tre, molti mercati del lavoro
Che le classi lavoratrici non siano in alcun modo sviluppate nella direzione di una massa unitaria e omogenea è un fatto che a partire almeno dalla seconda metà del XX secolo non è sfuggito a nessuno. È risultato altrettanto evidente che una parte di questa “eterogeneità” è stata oggetto di processi di razzizzazione e di essenzializzazione; che quindi, in altre parole, il razzismo ha svolto un ruolo non secondario nel minare ciò che i marxisti tradizionali hanno chiamato l’unità della classe operaia.
Questo è l’orizzonte problematico a partire dal quale Stephen Castles ha cercato di individuare una strategia di dominio nella “substratificazione” del mercato del lavoro attraverso l’impiego dei migranti. La sua analisi del sistema dei lavoratori stranieri nella Repubblica Federale Tedesca mostra che i lavoratori migranti venivano impiegati soprattutto nell’industria, e che il processo di reclutamento coincideva con un processo in cui lavoratori tedeschi o lavoratori del luogo passavano in misura crescente al settore terziario o salivano nella gerarchia d’azienda (cfr. Castles p. 120). Per quanto riguarda lo status socioeconomico, cioè la posizione all’interno dell’azienda, si verificava lo stesso fenomeno: i lavoratori stranieri venivano impiegati come turnisti molto più spesso dei lavoratori tedeschi (ivi p. 131), e lavoravano più frequentemente in aziende automatizzate. Secondo Castles la divisione della classe operaia attraverso l’introduzione, coordinata dallo Stato, di un “esercito di riserva” straniero e disponibile disloca l’antagonismo di classe sul terreno delle componenti “etnicizzate” della classe operaia, e in questo modo lo sfruttamento, al pari della discriminazione statale cui queste componenti sono sottoposte, viene ulteriormente potenziato.
Quando nel panorama della ricerca tedesco-federale si affermò la sociologia delle migrazioni, ci si occupò molto presto, alla luce del paradigma dell’integrazione, dei problemi della cosiddetta substratificazione dei migranti nel mercato tedesco del lavoro; in questo contesto, però, emersero evidenti problemi di esclusione sociale che furono percepiti nel loro complesso come una minaccia per la pace sociale. Si scoprì così che i migranti erano un problema, di cui ci si sarebbe dovuti occupare – nel migliore dei casi con interventi sociali, nel peggiore con misure di polizia.
Negli anni Ottanta la sociologia tedesco-occidentale importò la teoria della segmentazione del mercato del lavoro dagli Stati uniti, dove era nata alla fine degli anni Sessanta. In quel contesto punto di partenza dell’analisi era il dato empirico che coloro che appartenevano a gruppi svantaggiati – donne, afroamericani, giovani – erano investiti dalla disoccupazione con frequenza superiore alla media. Secondo le teorie della segmentazione non esiste un mercato generale del lavoro, ma solo mercati speciali (Sengenberger 1975; Blossfeld/Meyer 1988). La tesi di un mercato del lavoro duale allude all’esistenza di un mercato primario e di un mercato secondario, dove il primario prevede posti di lavoro sicuri con possibilità di carriera e alti salari, il secondario offre posti di lavoro mal retribuiti con possibilità inferiori di carriera e condizioni d’impiego precarie. Michael J. Piore (1980), un rappresentante eminente di questo indirizzo di ricerca, spiega la posizione speciale dei migranti con la struttura del modo di produzione. Con le misure di tutela contro i licenziamenti e altre regolamentazioni del diritto del lavoro, così come attraverso i contratti collettivi di lavoro, sono diventate un fattore stabile soprattutto le forze di lavoro autoctone impiegate nell’industria e tendenzialmente fuori del controllo dell’imprenditore. Questo vuol dire che gli imprenditori considerano queste forze di lavoro come fattori della produzione non suscettibili di adattamento alle congiunture dell’economia. Devono essere quindi impiegate stabilmente e soddisfare così quella che nel mercato del lavoro è la domanda fondamentale di forza lavoro. Tutte le oscillazioni stagionali e congiunturali devono essere riequilibrate con forze di lavoro flessibili. Ci si chiede a questo punto da chi possano essere rappresentate queste forze. Piore sostiene che i migranti corrispondono strutturalmente a questo mercato del lavoro, perché mostrano verso il lavoro un atteggiamento prevalentemente economico, sono per lo più intenzionati a far ritorno nel loro paese d’origine e sono quindi disponibili ad accettare qualsiasi tipo di lavoro. La teoria tedesco-occidentale della segmentazione ha ampliato il modello a tre mercati settoriali, pur facendo proprio nella sostanza il modo di procedere esemplificato da Piore. Mentre quest’ultimo, però, stabiliva una connessione strutturale tra modo di produzione e mercato del lavoro, questa problematica è per lo più scomparsa dalla sociologia descrittiva tedesco-federale. O ci si limitava ad affermare che i migranti erano peggio qualificati, oppure ci si affidava alla questione delle possibili “discriminazioni sul posto di lavoro”, ma non si voleva trovare per questo alcuna indicazione decisiva.
Esercito di riserva: dead men walking
La teoria della segmentazione del mercato del lavoro non era propriamente una teoria, ma rifletteva soltanto la rilevazione superficiale che era stata all’origine del nuovo orientamento di ricerca: i migranti lavorano nelle condizioni di impiego peggio retribuite. Questa constatazione poteva interpretare la posizione dei migranti nel processo produttivo solo sotto l’aspetto dell’allocazione nel mercato, mentre gli aspetti politici o giuridici non erano quasi presi in considerazione. La teoria dell’“esercito di riserva” forniva a sua volta una spiegazione della posizione dei migranti che la riduceva a una variabile dipendente dell’accumulazione di capitale. Una concezione ampiamente condivisa fino a oggi sia dagli economisti neoliberali sia dai loro oppositori critici della globalizzazione. Il capitale, questa la tesi, necessita di un esercito industriale di riserva e quindi attira forze di lavoro by any means necessary.
Entrambi gli approcci si fondano su una definizione statica dei migranti e non sono quindi in grado di cogliere la dinamica inerente al movimento migratorio. In ogni caso sono stati storicamente smentiti dalla prassi dei migranti stessi, che hanno sempre cercato con successo di sottrarsi ai tentativi di regolazione e di messa in forma. Nel regime fordista delle migrazioni, così come esso si è affermato in Germania con il sistema dei “lavoratori ospiti”, si manifestava un compromesso sovradeterminato nazionalisticamente che trovava articolazione in una specifica divisione del lavoro: i migranti tendevano a eseguire le attività connesse con il lavoro manuale, i lavoratori autoctoni venivano promossi a lavoratori intellettuali. È stato proprio questo modello di lettura la causa del fatto che le sinistre tedesche, anche quelle di orientamento operaista, non riuscissero a cogliere la critica pratica di questa concezione. Il paradigma della “substratificazione” non poteva comprendere da un punto di vista concettuale le lotte delle migrazioni, gli scioperi selvaggi e le rivolte dei migranti, né poteva rendere utilizzabile nella pratica la loro sovradeterminazione (Karakayali 2001; Bojadzijev 2003). La disseminazione, la tendenza a una nuova composizione della separazione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, doveva perciò essere regolata attraverso l’introduzione di una nuova separazione all’interno della divisione del lavoro: la temporalità delle migrazioni del lavoro. Il modo attraverso il quale, tramite le migrazioni, si manteneva questa divisione del lavoro era rappresentato dagli statuti giuridici relativi al lavoro straniero, che lo dovevano rendere un esercito di riserva disponibile. La modalità centrale era quindi costituita dal controllo della sua mobilità, che poteva assumere la forma della pratica della rotazione, quella dei regolamenti per la concessione dei visti o in generale quella della legislazione per gli stranieri. Il controllo non si limitava alla mobilità internazionale e transfrontaliera, ma anche alla mobilità settoriale all’interno degli apparati produttivi (Karakali/Tsianos 2002). I migranti, però, si sottraevano a questa combinazione di controlli sfuggendo alla delimitazione temporale delle migrazioni, che era la premessa stessa della concezione dell’esercito di riserva flessibile. Nel 1973 in Germania venne proclamato un blocco generale delle assunzioni per i lavoratori stranieri, ma i migranti hanno continuato a organizzare le migrazioni nella forma dei ricongiungimenti familiari[[Cfr. Karakayali/Tsianos 2002.. Questa “autonomia delle migrazioni”, come la definisce Yann Moulier Boutang, «si mostra nella sua indipendenza di fronte alle misure politiche che mirano a controllarla. Considerare le migrazioni dal punto di vista della loro autonomia significa sottolineare la dimensione sociale e soggettiva dei movimenti migratori» (Moulier Boutang 2002a). L’accento cade qui sui movimenti, perché questa concezione prende le mosse dalla materialità delle loro condizioni di costituzione all’interno del processo capitalistico di lavoro, senza però presupporre un soggetto (Stato vs. migranti). Ma che cosa vuol dire non pensare le migrazioni come semplice appendice di processi economici, come mera reazione?
Quando lo «spettro delle migrazioni» (Hardt/Negri) viene considerato come esodo, come fuga dalle zone della povertà e della miseria, un’analogia storica s’impone. La fuga degli operai dalle fabbriche, dai rapporti regolari di lavoro e dai rapporti patriarcali, che il movimento dell’autonomia ha letto come rivolta contro la disciplina di fabbrica e contro le condizioni di vita a essa collegate era una fuga dal compromesso social-partecipativo del fordismo, che otteneva la disciplina del lavoro in cambio della sua tutela relativa da parte dello Stato sociale. Le migrazioni sono la revoca di quello stesso compromesso corporativo che si materializza nella forma dei confini dello Stato-nazione.
Undocumented Migration – Migrants without documents
Se si assume la prospettiva dell’inchiesta operaia, secondo la quale non esistono regolarità oggettive nello sviluppo della storia, dello Stato o dell’economia, è evidente che la storia deve essere considerata, in base alla formulazione che compare nel Manifesto, come storia di lotte. Le rivolte dei contadini contro la loro espropriazione nel tardo medioevo, le lotte dei mendicanti e dei lavoratori mobili contro le leggi sul vagabondaggio fino alla rivoluzione francese e la lotta di classe del movimento operaio si sono inscritte in una storia del dominio[[Cfr. Moulier Boutang 2002.. La permanente riarticolazione e l’ampliamento della pratiche statali di assoggettamento, il compromesso con i soggetti subalterni continuamente riprodotto secondo modalità sempre differenti, il blocco di potere con coalizioni sempre nuove – questo movimento riceve la propria dinamica dai movimenti che gli si oppongono. Se si vuole però comprendere la materialità di questo movimento che oggi trova articolazione nelle migrazioni, non basta prendere in considerazione solo uno dei due poli del regime delle migrazioni. L’“autonomia” delle migrazioni sottolineata da Hardt e Negri non nega certamente l’esistenza di politiche del controllo, la cui forma estrema – il campo – Agamben ha fissato come paradigma. Il rapporto tra i due, la loro forma di movimento, si può determinare solo se si focalizza l’attenzione sul modus operandi del regime delle migrazioni, che ruota intorno sulla questione del lavoro.
Oggi centinaia di migliaia di migranti attraversano ogni giorno a piedi o con voli di linea, con il treno o a nuoto la presunta fortezza-Europa, alla ricerca di una vita o semplicemente di un reddito migliori. Molti sono pendolari che arrivano con un visto turistico, e di questi una gran quantità rimane in Europa anche dopo la scadenza del visto. Milioni di loro vivono già qui e lavorano in condizioni difficili, spesso umilianti, con rapporti di lavoro irregolari. Ciò che però colpisce in modo particolare è che accanto al lavoro dei migranti illegali nell’agricoltura, diventato nel frattempo oggetto di una certa attenzione (cfr. Neumann 2003; Bell 2003), anche nei paesi dell’Europa meridionale aumentano i migranti che lavorano nei settori del lavoro immateriale (Reyneri 2001; Psimenos 2001). Si tratta in questo caso di condizioni di impiego precarie e di lavori spesso mal pagati e quindi del segmento inferiore delle prestazioni di servizio alla persona. I sans papier lavorano per lo più negli alberghi, nelle case, come lavoratori del sesso, e meno nella produzione industriale in senso classico, sebbene di tanto in tanto venga scoperto, come di recente a Francoforte, uno sweatshop in un fabbricato sorto su un orto domestico, in cui migranti senza documenti cuciono insieme jeans e camicie[[Cfr. «Frankfurter Rundschau» del 7 maggio 2003.. Alcuni lavori e quindi interi settori occupazionali senza di loro non potrebbero nemmeno esistere. Data la situazione giuridica, si tratta però soprattutto di attività svolte nel settore informale, e con l’eccezione di alcuni segmenti della prostituzione di regola con questi lavori non si guadagna molto. I migranti sono molto spesso altamente qualificati, ma non possono svolgere la propria professione. Come già era avvenuto nel dopoguerra, con le classiche migrazioni regolari di lavoratori, molti migranti accettano le cattive condizioni di vita e di lavoro finché hanno una prospettiva di permanenza di breve o di medio periodo. Non appena però si rendono conto che non è più realistica l’idea di ritornare a casa dopo qualche anno con grandi somme di risparmi, mutano il proprio atteggiamento. Chi vuole rimanere, chi vuole mandare i propri figli a scuola, chi vuole vivere “normalmente” deve lottare per i propri diritti. A partire dalla fine degli anni Novanta in molti paesi europei sono divampate lotte per la legalizzazione dei migranti, che sono state qualche volta sconfitte, qualche volta hanno avuto successo, nella maggior parte dei casi hanno ottenuto una via di mezzo tra la vittoria e la sconfitta.
Queste lotte sono state condotte su un terreno che non può essere semplicemente pensato nei termini dell’opposizione tra Stato e moltitudine. Mentre i teorici neoliberisti e i loro critici sposano la tesi funzionalistica secondo cui il capitale necessita di forza lavoro flessibile (e per questo anche la ottiene), la concezione dell’“autonomia”, che si oppone a questa tesi, non dovrebbe ridursi a un’assolutizzazione della mobilità dei migranti. Ciò che qui rileva è infatti comprendere in quali condizioni le migrazioni si organizzano, ovvero analizzare le modalità cui i migranti si trovano di fronte rispetto ai tentativi compiuti dagli Stati europei per controllarli. Detto altrimenti: se il regime fordista delle migrazioni di lavoratori stranieri si fondava su uno specifico compromesso corporativo e nazionale, si tratta di definire i contorni del medesimo compromesso che rende ora le migrazioni illegali (cfr. Karakali/Tsianos 2002). Ma non solo: se i movimenti migratori devono essere pensati come movimenti contro l’“impero”, il compromesso avrebbe la funzione di interrompere e di sabotare le dinamiche che in essi si sviluppano.
Con le loro lotte per la mobilità e per i diritti di cittadinanza i movimenti migratori hanno operato nella pratica una continua dislocazione storica del compromesso. Nel suo recente libro Noi cittadini d’Europa? Étienne Balibar propone «quattro cantieri della democrazia» in relazione al processo attualmente in corso di costituzione dell’Unione Europea. Oltre alla questione giuridica e a una «lingua europea», secondo lui sono in gioco una nuova articolazione delle lotte del lavoro, una riorganizzazione a livello europeo del “tempo di lavoro” e quella che egli definisce una «democratizzazione dei confini». A partire dagli scioperi del 1995 in Francia (cfr. Lazzarato 1996; Negri 1996) risulta evidente che l’organizzazione della lotte del lavoro deve essere vagliata alla luce del rapporto tra cittadinanza e “professione”: «la svolta nella cittadinanza europea coincide de facto con la crisi dello Stato nazionale sociale, il quale dando una soluzione più o meno effettiva alla ‘questione sociale’ ha reso possibile la riproduzione della forma nazione nello stesso momento in cui lo Stato-nazione ha codificato e ha sancito una definizione del lavoro e del lavoratore» (Balibar 2001, p. 219).
Il movimento delle donne e quello ecologista, ma anche le lotte dei migranti, si sono storicamente opposti alla centralità del lavoro produttivo e all’esclusività delle concezioni classiche della lotta di classe, senza tuttavia negarle del tutto, ma collocandole in un contesto nuovo e ampliandole. Di fronte alla crisi del modello sociale europeo, la fine del lavoro – tenuto conto della disoccupazione di massa e dell’esclusione estesa a livello generazionale (delle migranti e dei migranti) – potrebbe essere dichiarata come irrealizzabile. Ma vi è qui un fattore ulteriore da prendere in considerazione: la trasformazione storica dello stesso lavoro produttivo. Balibar si riferisce esplicitamente alle analisi di Hardt e Negri in Impero, secondo cui, quando il lavoro produttivo diventa “produzione di socialità”, non è più in gioco soltanto la produzione dei mezzi materiali di esistenza, ma è anch’esso potenzialmente prassi politica: « si può formulare qui un principio che inverte nuovamente il rapporto tradizionale tra attività ed egemonia: non lavorare per produrre (dei beni, del valore), ma produrre (beni, servizi, informazioni, conoscenze) per lavorare, ossia per esercitare un diritto civile e politico fondamentale» (ivi p. 220).
Se il lavoro muta devono mutare anche le forme della lotta comune e delle istituzioni del conflitto sociale. Sarebbe per questo necessaria un’idea di comunità e di cittadinanza che non si fondasse sull’integrazione e sul consenso (cfr. ivi pp. 93 ss.; Rancière 1995), ma che concepisse il cittadino in prospettiva transnazionale come combattente politicamente attivo. La base materiale di una «cittadinanza in Europa» aperta ai migranti (in contrapposizione alla «cittadinanza europea») è costituita, secondo Balibar, da una negoziazione sull’attraversamento delle frontiere da parte dei movimenti migratori, che creerebbe un nuovo diritto di soggiorno, con lo scopo di mutare il rapporto storicamente consolidato della popolazione con il territorio. Infine, e soprattutto, non sarebbe nient’altro che una lotta che dall’interno del regime delle migrazioni cerca di superarne i confini.
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