D'ici

La festa del General Intellect

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Negli anni Settanta, il primo maggio fu una ricorrenza stantia e anche
un po’ gaglioffa. Stantia, perché le lotte operaie – e la politica, e la vita in genere –
se ne tenevano scrupolosamente alla larga. In quelle adunate prive di ogni
allegria, c’era soltanto il sindacato in quanto istituzione nevralgica dello Stato keynesiano.
Le confederazioni rivendicavano a gran voce,
talvolta con la stizza di chi parla da solo, il loro ruolo di rappresentanti
legali della merce forza-lavoro, l’unica davvero strategica nelle moderne
società industriali. Gli operai in lotta, che proprio quella merce volevano
risolutamente abrogare (anzitutto inflazionandone il prezzo, fino a
renderla antieconomica), se ne fottevano delle sfilate in nome del “nuovo
modello di sviluppo”. Come un adulto appena ragionevole non perde tempo dietro ai
re Magi.
Con i modelli vecchi e nuovi dello sviluppo capitalistico, i conti si
regolavano in officina: sciopero a scacchiera, salto della scocca,
corteo interno alla palazzina della direzione, salario come variabile
indipendente.
Anche un po’ gaglioffa, quella ricorrenza: infatti, era denominata
senza alcun pudore “festa del lavoro”. Come se il lavoro salariato non fosse una
disgrazia, come se qualcuno potesse essere orgoglioso (di “orgoglio” cianciava il
sindacato, appunto) di produrre plusvalore sulla linea di montaggio.
L’odio e il disprezzo per il regime di fabbrica evocavano semmai la necessità di
una festa contro il lavoro.
Dopo Seattle e dopo Genova, il primo maggio torna a essere, con un
vertiginoso balzo all’indietro, ciò che fu a fine Ottocento: il momento
privilegiato in cui emerge una “nuova specie” sociale e produttiva.
L’antico appuntamento è reinventato, oggi, dalla intellettualità di massa, ossia
da quella moltitudine di uomini e donne che, usando il pensiero e il
linguaggio come utensile e materia prima, costituiscono l’autentico pilastro della
ricchezza delle nazioni. Migranti, precari di ogni risma, frontalieri
tra lavoro e non-lavoro, stagionali dei McDonald e conversatori a cottimo
delle chat-lines, ricercatori e informatici: tutti costoro sono, a pieno
titolo, l'”intelletto generale”, il general intellect di cui parlava Marx. Quel
general intellect (sapere, intraprendenza soggettiva, forza-invenzione) che è,
insieme, la principale forza produttiva del capitalismo postfordista e la base
materiale per farla finita con la società della merce e con lo Stato in quanto
sinistro “monopolio della decisione politica”. A fine Ottocento, i tipografi, i
conciatori, i tessili ecc. – insomma i membri delle innumerevoli
associazioni di mestiere – scoprirono ciò che li univa: essere, tutti, astratto
dispendio di energia psicofisica, lavoro in generale. Il primo maggio sancì questa
scoperta e, per più di una generazione, fece tutt’uno con la richiesta delle
otto ore (meno lavoro, ecco il fulcro dell’etica moderna). Oggi, una moltitudine
di “individui sociali” – tanto più fieri della propria singolarità
irripetibile, quanto più correlati tra loro in una fitta trama di
interazione cooperativa – si riconoscono come intelletto generale della società. Il
primo maggio contemporaneo, in quanto festa grande del general intellect
(pensiero che desidera e desiderio che pensa), ha il suo perno nella ragionevole
pretesa di un “reddito di cittadinanza” e nel rifiuto di qualsivoglia copyright
sui prodotti di quella risorsa comune che è la mente umana.
Ma c’è dell’altro. Il primo maggio globalizzato e postfordista
richiama il primo maggio ottocentesco anche per un motivo più spinoso: in
entrambi i casi, la domanda cruciale suona così: come organizzare una pluralità (di
mestieri allora, di “individui sociali” oggi) che, al momento, pare
frammentata, costitutivamente esposta al ricatto, insomma
inorganizzabile? E’ innegabile, infatti, che l’intellettualità di massa stenta a rovesciare
la propria potenza produttiva in potenza politica. Non arriva ancora a
incidere sul tasso del profitto, ancora non le riesce di gettare nel panico le
direzioni aziendali. Per questo ha bisogno di convocare i propri “stati
generali”, di coordinarsi, di deliberare.
La prima questione all’ordine del giorno, sotto il sole primaverile del
2004, è quella delle forme di lotta. E’ stolto chi crede che individuare le
modalità del conflitto (quale sciopero, quale sabotaggio ecc.) sia un problema
tecnico, semplice corollario del programma politico. Tutt’al contrario: la
discussione sulle forme di lotta è la più intricata, vero banco di prova di ogni
teoria politica di qualche respiro (che non si riduca, cioè, a una cospirazione
illuminista di giuristi democratici). Intraprendenza, conoscenze
condivise, capacità di correlarsi e interagire: queste “doti professionali” della
moltitudine postfordista devono diventare temibili strumenti di
pressione. Le piattaforme rivendicative, in breve il “che cosa vogliamo”, dipendono
per intero dal “come possiamo agire” per modificare i rapporti di forza
all’interno di questa organizzazione sociale del tempo e dello spazio. Tutto
dipende, cioè, dall’invenzione spregiudicata di nuovi “picchetti” e nuovi “cortei
interni”, che siano all’altezza dell’imperante flessibilità e del modello di
accumulazione basato sul general intellect. Di più: l’uscita dai modelli
organizzativi del Novecento, malamente predicata da quanti hanno di
recente elevato la non-violenza a feticcio, trova qui, nella questione delle
forme di lotta, il suo effettivo momento della verità. Per intendersi: il
superamento della forma-partito fa tutt’uno con la scoperta, da parte dei migranti,
dei precari Tim, dei collaboratori a tempo determinato, del modo più incivo
per ricattare i propri abituali ricattatori.
La grande difficoltà a scovare forme di lotta adeguate è anche una
grande occasione. Tanto la difficoltà che l’occasione derivano da quante e
quali cose sono incluse, oggi, nel processo produttivo. Si dice: il capitalismo
postfordista mobilita, e mette a profitto, le facoltà basilari della
nostra specie: pensiero, linguaggio, memoria, affetti, gusti estetici ecc.
Ora, se questo è vero, il conflitto sul posto di lavoro non può che riguardare
una intera forma di vita. Per vincere una vertenza rivendicativa, bisogna
ricorrere a quella rete metropolitana di relazioni che fa di ciascuno
di noi un individuo sociale, uno dei “molti” di cui è composta la moltitudine. E’
lì che si addensa una forza cooperativa autonoma: è lì che si scambiano
informazioni, si attingono conoscenze, si stringono amicizie. Soltanto questa rete,
che per comodità chiamo il “bacino dell’intellettualità di massa”, può
sorreggere i conflitti nel singolo comparto produttivo. Ma dar voce al bacino
dell’intellettualità di massa significa creare nuovi organismi
democratici.
Ecco la grande difficoltà che, però, è anche grande occasione. La
richiesta di più soldi implica, qui e ora, l’abbozzo di inedite forme di
autogoverno, la costruzione sperimentale delle istituzioni politiche della moltitudine,
l’esordio in grande stile di una sfera pubblica che metta finalmente da
parte miti e riti della sovranità statale.