01. Compléments de la Majeure de Multitudes N° 19

Migrazioni e processi di informalizzazione : tra autovalorizzazione e sfruttamento

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Version originale italienne complète de art1803 paru dans le numéro 19 de Multitudes

Ce texte a été publié dans le recueil collectif I confini della libertà. Per un’analisi politica delle migrazioni contemporanee (DeriveApprodi 2004)

E’ consuetudine[[Le riflessioni e le analisi presentate in questo paper sono parte del lavoro di tesi di dottorato tuttora in corso, realizzata presso il Dipartimento di Sociologia e di Scienza Politica dell’Università della Calabria. Il titolo (non definitivo) è: “Economie e attività informali: deformazioni, innovazioni, resistenze. Per un’analisi dell’informalizzazione in rapporto alle dinamiche di sviluppo e attraverso le migrazioni”. percepire le migrazioni come movimenti di forza-lavoro, in cerca di una valorizzazione eterodiretta, che prescinda soprattutto dalla capacità dei soggetti di auto-attivarsi in un rapporto pragmatico rispetto al contesto di riferimento e alle relazioni.
Questo lavoro presenta una prima – e dunque ancora provvisoria – riflessione sui risultati di un’ampia ricerca empirica, condotta in maniera comparativa, che si focalizza sui processi di informalizzazione che coinvolgono soggetti esperenti percorsi migratori in diversi ambiti geografici e contesti produttivi. Sono prese in considerazione, dapprima, quelle che sono le dinamiche dei processi di urbanizzazione in Africa sub-sahariana, avvicinando in particolare le attività cosiddette “informali”, inventate, introdotte, sviluppate appunto da migranti – di prevalente origine rurale – nella città di Bamako, capitale del Mali.
Il caso del Mali e del contesto urbano di Bamako testimoniano il processo di sussunzione delle forme originarie di organizzazione economica e sociale avviato dalla dominazione coloniale nel contesto sub-sahariano. Qui, la successione temporale di tipi di migrazione, “specifici anche se non generali” – circolari, di inurbamento, fra centri urbani e poi intercontinentali –, di cui parla Sivini, mette in evidenza proprio come gli itinerari migratori siano cambiati man mano che la crisi si è generalizzata, al fine di ricercare le soluzioni possibili per assicurarsi e produrre le condizioni di esistenza (2000, p.80). È però opportuno specificare che la crisi – come trasformazione – delle condizioni di esistenza non è da legare unicamente alla scarsità dei redditi o delle risorse, ma coinvolge anche le relazioni. Lo si può comprendere considerando, per l’appunto, la modalità prima di migrazione. La migrazione circolare, verso i centri urbani, ma anche e dapprima verso i luoghi che sono stati funzionali alla valorizzazione capitalistica coloniale o aree votate all’agricoltura commerciale, avvengono stagionalmente e nei periodi tra le diverse operazioni colturali, oppure secondo cicli intergenerazionali[[Per procurarsi forza lavoro attraverso le migrazioni circolari, l’amministrazione coloniale si avvalse di diversi strumenti – «lavoro coatto, delimitazione degli spazi produttivi, stretto controllo della mobilità, obbligo di coltivazioni commerciali, ammasso di prodotti agricoli e di capi di bestiame» –, ma soprattutto e in via generalizzata, ricorse all’imposizione di tributi monetari. Al pagamento di questi, mantenuti poi dall’amministrazione degli Stati indipendenti, le comunità hanno potuto far fronte solo vendendo forza lavoro e commercializzando prodotti agricoli (Sivini, 2000).. Questo tipo di migrazione, anche se funzionale agli interessi capitalistici (in quanto sgrava il peso della riproduzione sulle comunità nei periodi di inattività), rappresenta comunque una resistenza delle comunità rurali, rispetto allo sfruttamento immediato e rispetto alla disgregazione delle relazioni. Progressivamente però, anche nel corso dell’esperienza singolare, può compiersi la scelta di restare stabilmente nel contesto urbano o di prolungare, spazialmente o nel tempo, la migrazione. E ciò inevitabilmente incide sulla disgregazione delle relazioni comunitarie e sulle modalità di riproduzione del gruppo di appartenenza.
Le migrazioni dalle aree rurali del Mali – fino al 1960, anno dell’indipendenza, chiamato Sudan francese[[E’ bene anche sottolineare che, in epoca coloniale, il Mali era stato soggetto a “specifiche” modalità di sfruttamento nell’ambito dell’Africa Occidentale Francese. Gli era stata infatti attribuita una funzione di approvvigionamento dei paesi costieri, produttori invece di merci da esportare verso la metropoli. Questo ruolo, entro il sistema dell’economia di tratta organizzato dalla potenza coloniale, comportava per il paese un drenaggio di risorse relativamente maggiore rispetto alle altre colonie costiere. Ciò in virtù del fatto che la Francia garantiva alle colonie prezzi all’esportazione superiori di quelli mondiali, in cambio però del controllo totale sui flussi commerciali, in entrata e in uscita, e poi dell’imposizione ai mercati africani di prodotti metropolitani a prezzi più alti. Evidentemente, la bilancia commerciale maliana non godeva di questa sorta di “squilibrata compensazione” e le ragioni di scambio erano di conseguenza più sfavorevoli (Sivini, 1987). – si sono dirette in prevalenza verso il bacino arachideo in Senegal (dove si effettuano secondo le modalità del navétanat[[«Il lavoro stagionale dell’arachide assumeva la forma del navétanat, sistema secondo il quale il lavoratore o navétane riceve dal suo “ospite“ un pezzo di terreno e un anticipo di sementi; nutrito, alloggiato, egli deve lavorare per il proprio ospite quattro giorni a settimana, il resto del tempo potendo dedicarlo alla parcella che coltiva per suo proprio conto» (Adams, 1977, p.51).) oppure verso le piantagioni costiere, soprattutto in Costa d’Avorio. Il movimento si riduce però nel corso degli anni Sessanta, in seguito alla campagna contro «l’exode de bras valides» lanciata dalle politiche di sviluppo e di modernizzazione delle nuove amministrazioni indipendenti: si incoraggiano anche gli stagionali a restare nei villaggi o a spostarsi nelle regioni in cui il governo vuole sviluppare la coltivazione dell’arachide. A partire dal 1968, la crisi agricola si approfondisce, a causa della siccità, della flessione del prezzo dell’arachide in seguito all’allineamento ai corsi mondiali e dei ritardi nei rimborsi alle cooperative produttrici (Adams, 1977; Amselle, 1976, pp. 76-80). In parte, le correnti migratorie dal Mali troveranno nuovo sfogo verso la Francia, in maniera consistente dalla regione di Kayès[[La regione di Kayès, come parte della valle del fiume Senegal, compresa fra tre paesi confinanti, Senegal Mauritania e Mali, ha una storia di migrazioni particolare, legata appunto all’organizzazione coloniale delle colture d’esportazione, in primo luogo della tratta dell’arachide. Adams, 1977.. È con la fine del controllo imposto dal regime socialista di Modibo Keïta, nell’ottica appunto dei piani di sviluppo agrario, che i movimenti verso i centri urbani si intensificano. Dalla fine degli anni Novanta, influiscono poi anche la riduzione di considerevoli movimenti verso la Costa d’Avorio e il ritorno dei precedenti fuoriusciti, a causa della crisi politica vissuta dal paese e delle tensioni sociali, sfociate dal 2002 in conflitto armato aperto.
Il breve cenno ai processi migratori che interessano il Mali è servito, oltre che a evidenziarne significativamente le origini storiche e materiali, a introdurre la trasformazione e strutturazione socio-economica di Bamako che, da sede amministrativa della potenza coloniale prima e del nuovo Stato indipendente dopo, vive progressivamente una riorganizzazione dello spazio produttivo e dei rapporti sociali proprio attraverso le migrazioni[[Il Mali non è estraneo ad una tradizione urbana. Gli Imperi che vi si sono succeduti avevano delle sedi amministrative. E Gao, Tombouctou sono le leggendarie “città nel deserto” attraverso le quali passavano i commerci transahariani, tra il Maghreb e l’Africa “nera” nord-occidentale.. Nel contesto urbano di Bamako (circa 1 milione di abitanti all’ultimo censimento della popolazione), si sperimentano nuove condizioni materiali, e dunque si inventano, apprendono, appropriano nuove tecniche e modi di produrre per rapportarsi a esse[[E’ bene segnalare che in Mali i mestieri, o almeno certi mestieri, si iscrivono – secondo un’organizzazione sociale tradizionale centralizzata – in un complesso sistema di caste. In passato, gli uomini di casta si collocavano fra i nobili e i contadini – di condizione libera – e gli schiavi. Questi mestieri rappresentano delle categorie sociali estremamente chiuse alle quali si applicano insieme tre regole che definiscono appunto una casta: la specializzazione professionale, l’ereditarietà e l’endogamia. In Mali, ma anche in Senegal, in Burkina Faso e nell’area regionale in passato compresa negli Imperi che vi si sono succeduti (sudanesi – del Ghana, del Mali, Songhaï, bamanan di Ségou e dei teocratici mussulmani), in caste di mestieri sono organizzati coloro che lavorano il metallo (forgerons e bijoutiers), i cordonniers, i tisserands, gli scultori, i musici. Ogni categoria è specializzata nella lavorazione di una materia prima (metallo, cuoio, cotone, legno,…).. I migranti in esodo dai contesti rurali vivono infatti il passaggio da condizioni di riproduzione essenzialmente assicurate dall’agricoltura di sussistenza e dai rapporti entro il gruppo di appartenenza, a quelle che, nel contesto urbano – considerate le scarse possibilità di una valorizzazione di tipo capitalistico[[Ricorrendo alle misure macroeconomiche, si tenga in conto che nel contesto nazionale maliano il settore rurale rappresenta il 46% del PIL, il settore industriale un esiguo 7% e i servizi (eminentemente commercio e trasporti) il 35%. – sono assicurate dalla invenzione e auto-promozione dei piccoli mestieri, di attività generatrici di reddito che dipendono unicamente dallo sviluppo delle proprie conoscenze, di esperienze, dall’applicazione di una capacità creativa, dalla ricerca di un’auto-determinazione[[Le attività e i mestieri sono tra i più diversi: dalla ristorazione e dai trasporti alle riparazioni, dalla produzione di sapone e di oggetti (x l’agricoltura o da cucina) in metallo alla tintura dei tessuti e all’affumicatura del pesce, dai sevizi alla persona al commercio. E molte attività coinvolgono sempre di più anche le donne.
Pur considerando la difficile attendibilità dei dati statistici nei contesti considerati, soprattutto incrociando anche “variabili” poco controllabili quali appunto i processi migratori, i risultati di un’inchiesta realizzata nel 1989 offrono l’idea della consistenza delle dinamiche di cui si scrive. L’inchiesta ha stabilito che il 78% degli impieghi urbani in Mali sono nel “settore informale”. Gli attivi occupati nel “settore” hanno registrato una progressione del 157% in 7 anni, passando da 457.970 nel 1989 a 1.176.064 nel 1996. Nel contesto urbano di Bamako, i 2/3 delle famiglia ricavano i loro redditi da quello che nelle statistiche nazionali è definito “settore informale” (République du Mali, 1991; OEF, 1996).. Le migrazioni si legano, dunque, a un processo di venire in essere del soggetto, che si compie attraverso un agire tecnico o pratico e nella relazione, che – nei termini di Simondon – definiamo transindividuale, ovvero costruita in rapporto alla realtà concreta, degli oggetti quotidiani e della produzione materiale.
“Seguendo” spazialmente il percorso dei molti che proseguono la migrazione verso Nord, lo studio avanza nell’analisi e considera poi le condizioni e le modalità di valorizzazione dei migranti in Europa, nella loro “ambivalenza”, ovvero negli aspetti dello sfruttamento e ancora dell’autonomia. L’“ambiguità” appare dunque connotare processi di informalizzazione che qui si legano sì alla riorganizzazione dell’economia capitalistica, ma che risultano anche percorsi e segnati dalle pratiche produttive e relazionali di soggetti in grado di agire le proprie condizioni di esistenza e, al contempo, incidere – anche qui – sull’organizzazione della produzione sociale.

Ciò che la ricerca in corso e il testo che qui è presentato intendono evidenziare è dunque come le migrazioni vadano intese come processi che si attualizzano in una dimensione globale, e non solo in termini spaziali ma anche sul piano soggettivo, come esperienza agita da “soggetti” che esprimono bisogni e desideri, con progetti e finalità. Dunque, non solo “persone”, nella dimensione esclusiva del riconoscimento di diritti fondamentali, e nemmeno “forza-lavoro” da scambiare sul mercato, in funzione di una domanda espressa.
La migrazione non si compie attraverso il mero attraversamento di frontiere, delimitate dalle sovranità statuali. È questa – nei contesti più “sviluppati” – la prospettiva dell’immigrazione fatta propria dalle politiche nazionali o sovra-nazionali, veicolata dalla comunicazione mediatica, e sostanzialmente basata su una differenziazione identitaria, culturale e politica istituzionalizzata.
Invece, le migrazioni rappresentano – probabilmente oggi più di ieri – il sovvertimento o la messa in discussione di un’organizzazione, di un ordine stabilito attraverso la conquista e la dominazione coloniale e lo strutturarsi del capitalismo a livello globale. E, attraverso ciò, la ricerca soggettiva o collettiva di un cambiamento delle condizioni di esistenza e delle relazioni sociali, iscritte in questo ordine, ma anche di quelle proprie dell’organizzazione sociale di origine.

L’analisi delle migrazioni si lega a quella dei processi di informalizzazione, che interessano globalmente l’organizzazione dei contesti produttivi. In letteratura, la definizione del concetto di “informalità” appare ancora controversa, soprattutto in ragione dei diversi contesti spaziali in cui trova una applicazione[[Sono citabili almeno cinque approcci: 1) un approccio dualista (quello delle istituzioni internazionali: l’International Labour Office ed il Regional Employment Programme for Latin America and the Caribbean; 2) un approccio strutturalista (Portes e Schauffler, 1993); 3) un approccio neo-liberista (De Soto, 1986); 4) l’approccio della piccola economia mercantile; e 5) un approccio a cui faccio riferimento come dell’economia sociale, che si ispira all’antropologia e alla (nuova) sociologia economiche e che ha a fondamento il pensiero di Karl Polanyi e la rielaborazione della teoria dell’embeddedness (ovvero della “incorporazione dell’economico nel sociale”) (vi si può comprendere anche la prospettiva di Latouche, 1997; ed anche il modello dell’”economia popolare”, Quijano, 2000)..
Convenzionalmente, il concetto di “informalità” si riferisce a “forme di valorizzazione economica esteriori o in conflitto rispetto a una regolazione istituzionale”, sul piano dell’organizzazione del processo produttivo, ma non del prodotto finale, che è invece lecito (è ciò che fa la differenza rispetto alle “attività criminali”). Una definizione “istituzionalista” (Castells – Portes, 1989; Feige, 1990; Sassen-Koob, 1988; Sassen, 2000, p. 93) trova prevalentemente applicazione nei contesti capitalisticamente avanzati, dove definisce in pratica l’economia sommersa, irregolare, il lavoro nero.
Nei contesti del sottosviluppo capitalistico[[Il “sottosviluppo” è qui interpretato come condizione di bisogno prodotta dalla “sussunzione coloniale” delle forme originarie di riproduzione e di organizzazione, economica e sociale. Nella lettura strutturalista, si configura poi come condizione di sfruttamento prodotta in virtù della posizione dei paesi periferici rispetto a quelli del centro, nella divisione internazionale del lavoro e nei processi di valorizzazione economica, entro il sistema capitalistico, sostanzialmente a condizioni di “scambio ineguale” rispetto al funzionamento dei mercati globali (ovvero, sia in termini monetari che produttivi). , dove il concetto ha trovato la sua prima formulazione[[La “scoperta” dell’informale è comunemente attribuita ad Hart (1973). E’ lui che – analizzando l’economia organizzata dai migranti rurali nella città di Accra (Ghana) – introduce compiutamente la distinzione tra opportunità di reddito formali ed informali, basate rispettivamente sul lavoro salariato e su forme di auto-impiego a bassa produttività, ma comunque caratterizzate da elementi di dinamicità, ovvero da capacità creative, cooperative, da sistemi relazionali inediti. Tali elementi tenderanno invece a scomparire nelle successive analisi dell’ILO e delle altre istituzioni internazionali., si è voluta invece identificare una modalità di valorizzazione alternativa alla “forma salariale” (alla base del “regime” o “modo di sviluppo” fordista), fondamentalmente basata su relazioni inedite, sullo sviluppo nei contesti urbani di nuove attività, di modi di produrre e di generare risorse economiche originali, di attività che fanno ricorso all’invenzione, alle capacità relazionali e all’appropriazione e circolazione di saperi (come accennato appunto rispetto al contesto di Bamako).
Dunque, nei vari contesti di applicazione, il concetto di economia informale e il riferimento a processi di informalizzazione si riferiscono a forme economiche e modalità organizzative e dinamiche anche molto diverse. Allora, come metterò anche in evidenza, è più opportuno dire che l’economia informale tende a connotarsi sempre meno come residuo (secondo i parametri struttural-funzionalisti propri della “teoria della modernizzazione”) o anomalia (come nelle analisi strutturaliste e di ispirazione marxista) dei processi di sviluppo, dunque come “strategia di sopravvivenza” di sotto-impiegati o disoccupati; e, invece, oltre che come modalità specifica di produrre in alcuni contesti, sempre più anche come “componente integrale” o “strategia riorganizzativa” della struttura dell’economia globale e delle forze sociali che l’attraversano (Portes – Benton – Castells, 1989; Taback – Crichlow, 2000; Williams – Windebank, 2001).

I processi di informalizzazione nel sottosviluppo capitalistico

Originariamente, l’informalità (o l’economia informale) è stata pensata in linea di massima assumendo come riferimento normativo il “modello di sviluppo”, le forme produttive e organizzative delle società più avanzate, che esperiscono cioè pienamente lo strutturarsi di un ordine capitalistico, con gli apparati sociali, economici costruiti intorno a esso e le identità in esso forgiate. Informalità, dunque, come ciò che non è ancora: modernità.
Non si è però messa appieno in evidenza la discontinuità, la rottura, il cambiamento delle modalità produttive e delle correlate forme di organizzazione sociale, nei contesti periferici (come quello sub-sahariano), rispetto alla “tradizione”. In tali termini, dunque, informalità come ciò che non è più: tradizione.
È da fugare però, a questo punto, l’equivoco di una interpretazione che torni nuovamente a leggere l’informalità – entro la visione dicotomica tradizione/modernità – come “settore di transizione”[[La lettura dell’economia informale come “fase di transizione” da una società di tipo tradizionale ad una società moderna è stata a lungo alla base delle analisi delle istituzioni internazionali, che hanno avuto una matrice nella teoria economica di ispirazione neo-classica di Lewis prima, poi di Todaro. In sintesi, questi hanno studiato le migrazioni dalle aree rurali verso i centri urbani, concependone per così dire il passaggio attraverso un “settore informale di transizione” prima di accedere al “settore formale moderno” dell’economia urbana.
L’interpretazione dell’informale in termini dicotomici, riconducibile allo struttural-funzionalismo parsonsiano, fu ispiratrice delle politiche di “modernizzazione accelerata” e di sviluppo promosse dalle organizzazioni internazionali negli anni ’60-’70 in America Latina e in Africa Sub-sahariana (Quijano, 1998)..
Ciò a cui interessa dare risalto – anche attraverso l’analisi delle migrazioni – è il divenire indefinito, nel senso di non specificato e singolare, dei soggetti in esodo dalle aree rurali. Tale processo si compie entro un contesto reale, in cui il soggetto si orienta in funzione dei problemi che deve risolvere e di finalità da conseguire.
L’informalità nei contesti urbani (capitalisticamente) sottosviluppati ha dunque designato un processo di ri-organizzazione della trasformazione sociale, secondo modalità inedite e originali, di produzione appunto di “novità” (novelties), in termini di legami, cose, saperi o di combinazioni fra questi elementi, a cui hanno contribuito le migrazioni nei centri urbani. Come nel caso specifico di Bamako, in Mali, che vive un processo di esodo rurale in crescita, ma in cui spesso arrivano o transitano anche migranti provenienti da più lunghe distanze, da altri Stati sub-sahariani (dalla Guinea, dal Burkina Faso, dalla Nigeria, dal Ghana, …), che spesso risalgono il continente verso l’Europa, in virtù anche del clima democratico e di relativa tranquillità sociale instauratosi in Mali in seguito alla caduta, il 26 marzo del 1991, della dittatura militare e del regime a partito unico di Moussa Traoré (al potere dal 1968).
L’analisi dei processi di informalizzazione nei contesti sub-sahariani deve dunque formularsi a partire da un ri-pensamento critico del concetto stesso di “informalità”, almeno nella sua formulazione secondo l’ottica sviluppista e la logica binaria che ha caratterizzato il pensiero socio-economico per almeno un cinquantennio. Ma deve anche cogliere la dinamicità di processi molto più ampi, non circoscrivibili più a territori, regioni e confini, identità fissate o iscritte in una “tradizione” o in una “alterità” celebrate dalla retorica di stampo coloniale, da un etnocentrismo padre di un pensiero modernista o sviluppista.
La realtà sociale post-coloniale e post-modernista[[L’uso del concetto “post-modernista” vuole qui fare appunto riferimento ad una lettura che superi la dialettica fra tradizione e modernità, iscritta per lungo tempo anche nell’approccio allo sviluppo e nella stessa teorizzazione dell’informale da parte delle Istituzioni Internazionali e della cooperazione allo sviluppo. Si lega dunque in qualche modo a quello di “post-coloniale”, che vuole di fatto tradurre la presa di parola dei popoli dominati, e più che mai gridata all’orecchio dell’Occidente proprio dalle migrazioni. vive un processo di riorganizzazione delle sue condizioni di esistenza, a partire dalle pratiche quotidiane implementate dal basso dai soggetti. Il concetto di informalità, applicato all’analisi dei contesti urbani sub-sahariani, può allora servire a cogliere questo processo di ri-organizzazione dal basso dello spazio produttivo, della appropriazione o dello sviluppo tecnologico o tecnico, delle relazioni sociali.
L’agency che implicitamente è richiamata si traduce in una capacità dei soggetti inurbati di interpretare il contesto di riferimento e, sulla base di tale interpretazione, elaborare delle pratiche – secondo la definizione (Long – van der Ploeg, 1994) – goal-oriented, ovvero che assicurino l’implementazione di un progetto o il conseguimento di un fine. Tuttavia, il contesto dei rapporti sociali e dei rapporti materiali è imprescindibile. I concetti di co(a)gency (Michael, 2000) e di co-production (Van der Ploeg) servono a contemplarlo nell’analisi delle attività e pratiche sviluppate dai soggetti migranti nel contesto urbano di Bamako. Il concetto di co(a)gency – che associa co-azione (co-agency) e cogenza (cogency) – serve poi a cogliere il prodursi di un processo insieme soggettivo e collettivo, insieme di trasformazione della realtà sociale e materiale e dell’esistenza singolare (nella sua “distributedness and singularity”).

Informalità e migrazioni nelle economie avanzate

Nei contesti capitalisticamente avanzati, l’analisi dei processi di informalizzazione si lega alla riorganizzazione dei processi produttivi, ma insieme anche alle dinamiche di autonomizzazione delle migrazioni.
L’analisi delle migrazioni è spesso legata all’inserimento dei migranti nell’economia sommersa o allo sviluppo di reti, circuiti, forme organizzative collettive, in enclaves o nicchie che si inseriscono nella ristrutturazione dei sistemi produttivi e nella riorganizzazione delle economie urbane – attraverso forme di subappalto o esternalizzazione di fasi del processo di produzione (pensiamo ai servizi di pulizie, al settore delle costruzioni, all’industria delle confezioni, al montaggio di prodotti elettronici) (Light, 1999; Portes, 1995; Portes – Castells – Benton, 1989; Sassen-Koob, 1988; Sassen, 1996).
Entro queste dinamiche, dunque, anche le “strategie” dei migranti si trovano sussunte, catturate – in virtù pure del discrimine giuridico e politico e della conseguente “clandestinizzazione” a livello sociale cui i “migranti stranieri” sono soggetti (Dal Lago, 1999). L’inserimento dei migranti nei contesti di arrivo risulta inevitabilmente connesso alla loro condizione giuridica e alla percezione e costruzione sociale degli stessi: le modalità di ingresso legali o illegali, la condizione di soggiorno regolare o irregolare fissate negli ordinamenti nazionali e nelle strategie di “governo” delle migrazioni, congiuntamente alla clandestinizzazione ed etnicizzazione operate attraverso meccanismi politici, sociali e mediatici di costruzione di “senso comune”, alla oggettivazione e categorizzazione prodotta dallo stesso discorso scientifico agiscono quali parametri di “individuazione” delle persone migranti, fondandone il discrimine, l’alterità, la diversità. Ed è su tali dinamiche che si innesta la loro marginalizzazione, segregazione sociale e il conseguente sfruttamento.
La comprensione di tali dinamiche e, nel contempo, il loro collocamento entro le trasformazioni del sistema produttivo e del sistema socio-economico complessivo, sono indispensabili al fine di interpretare l’inserimento “lavorativo” dei migranti.
L’analisi dell’inserimento lavorativo dei migranti nel contesto europeo parrebbe confermare la loro costituzione in una nuova underclass urbana, una sottoclasse senza garanzie sociali, dai diritti politici sospesi, come ipotizzato in merito al contesto statunitense (Clark 1998). Tuttavia, anche in tali condizioni i migranti riescono a far uso di opportunismo e creatività, a scavare propri percorsi, a ricavare strategie di autovalorizzazione.
Circoscrivendo l’analisi alle attività irregolari dei migranti e al sommerso socio-economico, risulta importante considerare come si caratterizzino e si strutturino localmente tali “spazi”, nel merito dei processi di ristrutturazione della produzione capitalistica e delle conseguenti trasformazioni a livello sociale.

I migranti nell’economia sommersa

I confusi confini fra attività formali e informali, le varie esperienze migratorie, le strategie e le politiche di governo dei flussi, le forme diverse di lavoro, di imprenditoria, di attività riflettono una estrema “frammentazione sociale ed economica”, tipica dello sviluppo capitalistico contemporaneo postfordista.
L’analisi dell’inserimento lavorativo dei migranti deve innanzitutto partire da una critica alla tesi dell’”uniformità del punto di ingresso”, che postula l’immissione nell’attività lavorativa attraverso il mercato secondario del lavoro, riflesso del dualismo della struttura produttiva (Piore, 1979). L’inserimento dei migranti avviene anche attraverso l’attivazione di altri canali: enclaves economiche su basi etniche, nicchie etniche e l’economia informale che, sebbene assunte come ulteriore articolazione del mercato del lavoro, si collocano esternamente a esso concepito quale istituzione regolatrice del rapporto fra domanda e offerta (Sivini, 2000). Considerare ciò vuol dire non solo rinunciare a pensare il “mercato del lavoro come unico luogo – dominato dal capitale – in cui domanda e offerta di lavoro si possono riconnettere” (p. 43), ma vuol dire anche propendere per una riconcettualizzazione della categoria “lavoro” e, congiuntamente, criticare la riduzione delle migrazioni a “migrazioni di lavoro”, nelle dinamiche di sviluppo postfordiste.
In realtà, i diversi canali di inserimento dei migranti risultano spesso fra loro collegati e ciò attraverso le dinamiche relazionali che accompagnano i migranti nel loro movimento, dal luogo di partenza al luogo di arrivo, nel loro insediamento, lungo il “percorso lavorativo” e nell’organizzare attività economiche e occasioni di valorizzazione autonome. Tuttavia, la varietà, moltiplicazione e trasformazione delle forme di accesso all’economia di destinazione – nella fattispecie quella dei paesi europei a capitalismo avanzato – è comunque da inquadrare entro le dinamiche di funzionamento del sistema socio-produttivo complessivo di contesto, a sua volta connesso e inglobato entro i circuiti e i processi dell’economia mondializzata.
Sassen (2002) riconduce la segmentazione del mercato del lavoro, la stigmatizzazione ed etnicizzazione di attività economiche e anche l’innovazione delle forme di impiego alla rispazializzazione e riorganizzazione capitalistica, alla conseguente contaminazione identitaria, culturale, economica, connessa anche ai movimenti migratori. Pertanto, le forme definite nei termini di “economia etnica” o “economia informale”, così circoscrivendole a strategie di sopravvivenza importate dai Paesi del Terzo Mondo o a enclaves residenziali a consistenza etnica o a modi specifici di gestione della precarietà, sarebbero da ricondurre a processi di segmentazione dei mercati e frammentazione del sociale impliciti al modello di sviluppo postfordista.
Le politiche migratorie dei paesi sviluppati, caratterizzate da un orientamento di chiusura – negli Stati Uniti come in Europa – indubbiamente si correlano a una “divisione etnica del lavoro”, riducendo il numero degli ingressi e creando le condizioni per l’aumento dell’incidenza del lavoro irregolare e clandestino (Harris, 1995).
In Europa, pur non mancando un’attenzione all’ethnic o immigrant business (Rath, 2000), l’inserimento lavorativo dei migranti è letto soprattutto attraverso il passaggio più o meno obbligato nelle attività subordinate e residuali del sommerso.

Il sommerso mediterraneo

È possibile rintracciare un elemento di continuità nell’inserimento migrante nel sommerso dei paesi dell’Europa meridionale (Italia, Grecia, Spagna e Portogallo), date le caratteristiche storiche dell’organizzazione economica che sono loro proprie, ovvero un’ampia presenza di lavoratori auto-impiegati, di micro imprese e di economie di sussistenza (Quassoli 1999). Tuttavia, a tali tratti tradizionali sono da associare nuovi impulsi indotti globalmente dalle trasformazioni post-industriali, ovvero dai processi di flessibilizzazione, downsizing e decentralizzazione, di crescita dei servizi e di forme atipiche di lavoro, specie nei contesti urbani (Baldwin-Edwards e Arango, 1999). Questa caratterizzazione sembra appunto descrivere il contesto socio-produttivo di Italia, Spagna, Portogallo e Grecia.
La stratificazione e la gerarchizzazione prodotte, a livello dei rapporti sociali, dal processo di professionalizzazione, managerializzazione dell’occupazione, guidate dall’appropriazione del sapere “informazionale” (tecnologico, manageriale, comunicativo) determinano nuove forme di marginalità o di emarginazione. Coloro che sono privi di “qualificazione” (positiva) – professionale, giuridica, politica o sociale – sono relegati in basso attraverso un meccanismo di “governo” che produce e usa diversità[[«La valorisation excessive des services à forte valeur ajoutée et du travail des cadres a pour conséquence de stigmatiser les «autres» types d’activités économiques et avec elles les personnes qu’elles emploient, considérées désormais comme inutiles ou tout au moins comme ne relevant pas d’une économie de pointe» (Sassen, 2002)..
La frammentazione delle unità produttive, la variabilità e stagionalità del lavoro (prevalentemente in agricoltura, nell’edilizia, nelle pulizie industriali, nell’industria turistico-alberghiera) e la prossimità alla domanda finale delle famiglie sono le tre direttrici dell’inserimento nel sommerso occupazionale dei migranti nel conteso europeo (Ambrosini, 2002, p. 122).
I servizi e le attività ad alta intensità di manodopera in cui sono impiegati i migranti sono sempre più rilevanti per il funzionamento delle città, per la qualità della vita dei suoi abitanti, e soprattutto per le fasce professionalmente privilegiate (Sassen, 1992). In Italia, per esempio, l’impiego dei migranti nel lavoro domestico o nella cura delle persone offre molteplici convenienze, oltre che alle famiglie direttamente interessate, indirettamente anche ai sistemi dei servizi pubblici così sgravati di pressioni per l’ampliamento dell’offerta di servizi e, ancora, ai datori di lavoro delle donne con carichi familiari, altrimenti sottoposti ad assenteismo, rigidità negli orari e maggiore pressione retributiva (Ambrosini, 2002).
Inoltre, interi settori, come quello edilizio o degli interventi immobiliari, possono realmente dirsi rivitalizzati dall’impiego irregolare di migranti: ne sono esempio Lisbona, Atene, Berlino (Baldwin-Edwards e Arango, 1999), ma anche l’area ligure, in Italia; anzi sono addirittura dipendenti dall’impiego di manodopera migrante, e il riferimento in questo caso è al settore agricolo, come in Spagna e in Italia.
Fondamentalmente, nel contesto europeo, le pratiche informali e sommerse o autonome e di auto-impiego sono interpretate come una “strategia difensiva”, espediente ultimo per i migranti al fine di partecipare all’economia. Tuttavia, è lo stesso contesto produttivo a determinare le condizioni di accesso in rapporto alle proprie dinamiche di funzionamento. In merito all’inserimento dei migranti nell’economia sommersa spagnola due fenomeni sono rilevati: una notevole riduzione della varietà degli impieghi o professioni degli immigrati e la prevalenza di lavoratori non-specializzati, impiegati come lavoratori “generalisti” in nicchie circoscritte (Martínez Veiga, 1999, p.106). Alla “squalificazione” lavorativa è dunque associato un processo di “specializzazione etnica”, ovvero la concentrazione – entro il ridotto spettro lavorativo – di ogni gruppo nazionale in un particolare tipo di lavoro. Questa concentrazione dipende da sistemi di reclutamento complessi, articolati su reti e catene migratorie, ma anche su agenti intermediari o istituzioni facilitatici dell’incontro fra “domanda” e “offerta”.
Le reti etniche rappresentano la principale agenzia di collocamento del lavoro irregolare e concorrono a segmentarlo, anche “etnicamente”. A tal proposito potrebbe essere adeguata la descrizione della “rete migrante di lavoro” (migrant labour network), come quella instauratasi fra la Spagna e la Repubblica Domenicana, come chain of work. Il riferimento è alle “commodity chains”, definite da Hopkins e Wallerstein come «network di lavoro e processi di produzione, il cui prodotto ultimo è una merce finita». Nel caso in oggetto, il job network attiverebbe la circolazione di persone da aree periferiche verso aree più centrali al fine di concorrere alla produzione ed erogazione di beni e servizi. Tale network funziona come una “catena” per il ruolo attivo alle due estremità spaziali del processo: il luogo di origine favorisce la circolazione e la mobilità della forza lavoro, mentre il luogo di arrivo è centro di incontro fra domanda e offerta (Martínez Veiga, 1999, p.110).
Tuttavia, i limiti della chain of work si individuano, anche questa volta, nell’interpretare le migrazioni come “migrazioni di forza-lavoro”, nei termini di “fattore di produzione” da immettere nei circuiti di scambio e di valorizzazione, tentando dunque di costringerle a leggi di controllo e di regolazione. È sottovalutata, invece, l’irriducibilità, la complessità, la ricchezza di quelli che si configurano come veri “movimenti sociali”, carichi di umanità, ovverosia dell’insieme delle capacità che sono dell’essere vivente, nella sua singolarità ma anche nelle appartenenze e nelle relazioni collettive. La mercificazione dei migranti si collega però appunto alla “segmentazione etnica” dei mercati locali entro pratiche di stigmatizzazione, di assoggettamento e di sfruttamento implicita al modello di sviluppo capitalistico contemporaneo.
Ecco dunque come i migranti trovano posto entro lo sviluppo economico e sociale dei paesi a capitalismo avanzato, attraverso un “governo” del loro inserimento finalizzato all’assoggettamento.
L’analisi dell’inserimento dei migranti nei paesi europei, soprattutto mediterranei, ben evidenzia la prevalente collocazione in attività precarie, non garantite, mal pagate, richiedenti una bassa qualificazione, di basso status sociale, che i lavoratori autoctoni rifuggono. Lo schema interpretativo dualistico spesso adattatovi (sostanzialmente fondato sulla stabilità e regolarità lavorativa), oltre a non cogliere la precarietà diffusa a ogni livello occupazionale e, dunque, risultando inadeguato di fronte alle trasformazioni che interessano il lavoro nello sviluppo postfordista, mostra i suoi limiti soprattutto di fronte alla “specificità” del lavoro migrante.
Il continuo passaggio da un lavoro a un altro, il sempre più evanescente confine fra lavoro e non lavoro rendono lo stesso concetto di “lavoro” inappropriato. La “conversione dei lavoratori in generalisti” non è condizione esclusiva dei migranti ma è condizione estesa a tutto il corpo sociale e da collegare alla capacità dei nuovi processi produttivi di sussumere e mettere al lavoro le generiche capacità umane, relazionali, comunicative, creative. Nell’immanenza e contingenza di un’attività umana mossa da desiderio e necessità si dà dunque pienamente il “lavoro vivo”, ovvero si rivela nella sua essenza la forza-lavoro, come pura potenza di produrre, legata all’insieme di tutte le capacità (cognitive, comunicative, linguistiche, relazionali, creative) dei soggetti in quanto esseri viventi (Virno, 2003).

Migrante: emblema del lavoro postfordista?

In termini generali, nel contesto delle economie avanzate, nel momento storico contemporaneo, la diffusione di attività ed economie sommerse, il delinearsi di un processo di informalizzazione (o meglio di deformalizzazione) si manifestano, in sostanza, come gli effetti del processo di ristrutturazione dei sistemi socio-economici organizzati sul modello del welfare capitalism, del workfare e dunque del “regime salariale” di regolazione sociale, ma soprattutto come modalità caratterizzanti un sistema di produzione flessibile, a cui si adegua una regolazione frammentata (Mingione, 1997, p. 98-100), ovvero esattamente in controtendenza rispetto alla fase precedente[[Il termine “regime” (Mingione 1997, p. 111), allude ad un insieme relativamente coerente e stabile di norme di vita, ma evoca anche il modello organizzativo della società disciplinare fordista..
La transizione postfordista è in sintesi caratterizzata da un processo di deformalizzazione (Williams e Windebank, 2001, p.30) finalizzato al superamento delle rigidità di sistema, alla fluidificazione dei mercati e lubrificazione del sistema capitalistico.
Il soggetto migrante è probabilmente la figura che vive “emblematicamente” la condizione mondana post-moderna (nei termini di Virno, 2002) e incarna propriamente il “paradigma” post-fordista.
Il riferimento alla “condizione di migrante” serve a individuare soggetti in movimento come pura potenza o potenzialità indeterminata (Virno, 2002), ma può servire anche a cogliere le trasformazioni intervenute nei processi produttivi e nello stesso concetto di “lavoro”, evidenziate a grandi linee analizzando il processo di informalizzazione/deformalizzazione come tendenza dello sviluppo capitalistico più avanzato, condensata appunto nei concetti di deregolazione, flessibilità, casualizzazione dei rapporti di impiego, precarietà, auto-impiego, attività.
In tale prospettiva, potrebbe dunque considerarsi superata anche una “categorizzazione” dei migranti in funzione della diversa appartenenza nazionale e, di conseguenza, di un discrimine giuridico o legale. La “differenziazione” risulterebbe funzionale esclusivamente al controllo e allo sfruttamento[[A questo proposito risulta interessare cogliere la paradossalità della normativa nazionale in materia di immigrazione (Legge Bossi-Fini), addirittura in conflitto con le nuove norme sui contratti di lavoro, raccolte nella legge 30 o legge Biagi, invalidata dalle norme per la concessione dei rinnovi dei permessi di soggiorno in Italia. Molti dei 700mila immigrati “sanati” dall’ultima regolarizzazione, al termine del 2003, in possesso di contratti di lavoro atipici regolati dalla normativa Biagi (a progetto, a tempo determinato, a chiamata, job sharing…) rischiano di non ottenere il rinnovo del permesso di soggiorno, per cui vi è bisogno di un contratto di lavoro subordinato (mai autonomo), di almeno un anno. Si veda l’inchiesta apparsa su il manifesto del 12 maggio 2004, dal titolo “La legge è fuorilegge. Il migrante è nei guai”, di Cinzia Gubbini, p.13.
Allora, più che il mercato del lavoro, in questo caso, il sistema politico alimentato dalle ansie e paure sociali, a loro volta esasperate dalla comunicazione dei media e dei partiti, punta a relegare i migranti se non esplicitamente nell’irregolarità, formalmente in condizioni di dipendenza lavorativa, negandogli la possibilità dell’autonomia e dell’intraprendenza.
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Si può ipotizzare, allora, che la figura del migrante incarni oggi l’essenzialità o meglio la “potenzialità della forza-lavoro”, perno del sistema produttivo post-fordista. Il “migrare” da un lavoro a un altro, da una mansione a un’altra, da un’attività all’altra, oltre che da un paese a un altro, da un contesto geografico a un altro non è solo caratteristica di un soggetto identificato da un discrimine giuridico legale. È caratteristica dei processi lavorativi e anche della produzione del sociale contemporanei. È insomma “condizione soggettiva” della fase attuale.
Tuttavia, con ciò non si intende concepire le migrazioni esclusivamente come “migrazioni di lavoro” e pertanto assimilare il migrante a “corpo da lavoro”. È questo il retaggio di una fase delle migrazioni – quella fordista – oramai superata, entro il quale sembrano ancora inquadrarsi le “politiche di regolazione dell’immigrazione” (Sivini, 2002), elaborate dunque unicamente nella prospettiva delle società di arrivo (Sayad, 1999) e funzionalmente alle necessità della domanda “esplicita” del sistema produttivo.
I migranti esistono come moltitudine, «un rigurgito dello “stato di natura” nella società civile», appunto perché vivono quella esposizione al mondo che richiede l’abitudine a non avere abitudini (Virno, 2001). Il migrante – per dirla con Virno (2002) – ha in sé la facoltà, la potenza, la dynamis, amplificata nelle forme di attività autonome e oltremodo nell’informale auto-prodotto.
Il libero gioco dato alla “natura umana” ha però una funzionalità entro la “società di controllo”. La neotenia, e l’indeterminatezza che ne deriva, sono messe al lavoro entro “spazi di potenzialità controllati”. La plasticità, duttilità confacenti alla contingenza storico-sociale non fanno del migrante l’”uomo flessibile” di Sennet, dalla personalità o dal carattere corrosi, come “uomo qualunque”, neutro, eroso nella sua appartenenza e singolarità, nei suoi legami e nella sua integrità identitaria (Sennet, 1998).
L’opportunismo deve costituirsi come tratto proprio del migrante. Da straniero, che “non si sente a casa propria”, deve far ricorso alla propria capacità di destreggiarsi tra le opportunità che gli si presentano, deve avere una relazione pragmatica con gli oggetti, le entità che lo circondano, le situazioni vissute, deve fare ricorso all’agire comunicativo, cooperativo, relazionale. Al venir meno delle comunità sostanziali, l’intelletto puro diviene la bussola utile a orientarsi e a sopportare l’esposizione al mondo. È la soggettività del migrante a costituirsi come intelletto generale, che esplicitato nell’agire defezionale, nella trasformazione adattiva, nella capacità innovativa, nella facoltà relazionale, reticolare e anche in processi di “retroazione” nei contesti di origine. Allora, sarebbe opportuno parlare, più che di una “doppia assenza” (Sayad, 1999), di una presenza multipla del migrante, in senso spaziale come “nodo” di sistemi reticolari, di legami affettivi, ma anche nel senso di una reattività “situzionale”.
Le trasformazioni del lavoro dell’epoca attuale e specificamente il lavoro dei migranti, anche clandestino, sommerso o etnicizzato, offrono un riscontro empirico della sussunzione capitalistica del “virtuosismo” (come potenzialità a essere e a produrre) della forza-lavoro.

Coerenza e specificità dell’informalità migrante

La “specificità” del lavoro informale migrante nelle società più avanzate è dunque, sostanzialmente, nella discriminazione di cui è oggetto, sul piano giuridico-politico, sociale e lavorativo. Tuttavia, può essere anche connessa a una “progettualità”. Anche in caso di valido permesso di soggiorno, il migrante può individuare un incentivo al lavoro in nero nell’immediatezza e massimizzazione dei propri guadagni monetari, anche al fine di anticipare il proprio ritorno nel paese di partenza. In presenza poi di un progetto imprenditoriale, la fase sommersa rappresenta solo una più immediata (e, probabilmente, temporanea) modalità di ingresso, soprattutto in presenza di barriere all’entrata o in mercati competitivi (Malheiros, 1999; Origo – Lodovici, 2002).
Tuttavia, rispetto alle economie più avanzate, i processi di informalizzazione si legano anche alle strategie di “autoriproduzione” di migrazioni, divenute progressivamente indipendenti da fattori di attrazione o di spinta attraverso la costruzione di reti sociali. Il concetto proposto da Light (1999) è quello di spillover migration per descrivere appunto “processi migratori dilaganti”, resisi autonomi da determinismi strutturali e dotati di un potenziale trasformativo esplicitato attraverso pratiche di adattamento e di inserimento originali. In questa prospettiva, dunque, non è solo la domanda di consumo ristrutturata il motore del cambiamento nella struttura economica e sociale che attrae le migrazioni nelle economie avanzate. Le reti contribuiscono ad autonomizzare le migrazioni da condizionamenti strutturale. È enfatizzato, dunque in questo modo, il peso dell’azione migrante, anzi della co-azione. Una volta formate, le reti promuovono la semi-indipendenza dei flussi migratori dai processi di ristrutturazione globale per le loro capacità di riduzione dei rischi e dei costi emotivi, economici e sociali delle migrazioni (cfr. Massey, 1988).
Il concetto di spillover migrations spiega come le migrazioni, sebbene innescate dalle condizioni della domanda, si espandano grazie al sostegno di reti, e ciò indipendentemente dalle richieste del mercato. «Spillovers sono segnalati quando i salari reali degli immigrati e le condizioni di lavoro nei luoghi di destinazione si deteriorano, ma la loro migrazione continua allo stesso ritmo o cresce di volume» (Light 1999, p. 173), attraverso processi di informalizzazione o imprenditorializzazione sostenuti dalle reti migratorie.
Tale interpretazione della connessione tra migrazioni e informalizzazione ha l’indubbio merito di cogliere la potenzialità dei migranti nel mobilitare risorse e creare opportunità in una struttura economica e sociale “recalcitrante”, ma che esprime dei bisogni. Auto-impiego, imprenditorialità e informalizzazione si configurano come strategie di adattamento e di riproduzione di migrazioni resesi indipendenti e inarrestabili. Il concetto di spillover migration coglie pertanto il carattere moltitudinario e auto-propulsivo delle migrazioni contemporanee, nella fase postfordista, non più interpretabili come “esercito di riserva”, bensì capaci di un’autovalorizzazione (Sivini, 2002).
Tuttavia, anche condividendo la lettura positiva di Light, non si può trascurare il ruolo delle politiche statali di immigrazione, nell’incidere sulla configurazione del carattere delle migrazioni, sulle forme di inserimento e sulle opportunità economiche e sociali concesse ai soggetti (Freeman – Ögelman, 1999).

L’inclusione differenziale

«Lo spettro delle migrazioni di massa si aggira per il mondo», scrivono in modo suggestivo Hardt e Negri (2002, p.203). La paura del contagio morale e culturale, la minaccia a un benessere consolidato e diffuso spingono i paesi ricchi a trincerarsi in “fortezze” e a coordinare sistemi di governo dei processi migratori, al fine di operare una inclusione differenziale e finalizzata. È questo il dispositivo generale del “comando imperiale”: inclusivo, differenziale, manageriale.
Le “politiche di chiusura” hanno avuto l’effetto non di arrestare le migrazioni, ma di favorire pratiche discriminanti e segreganti. I mercati del lavoro, il contesto sociale hanno subito una riorganizzazione gerarchizzata etnicamente, con i soggetti e lavoratori stranieri relegati ai margini (Moulier Boutang, 1991; Williams e Windebank, 1998).
La “clandestinizzazione” dei soggetti migranti è il prodotto ultimo di una strategia di governo non più rivolta solo alla difesa dei confini esterni, permeati dalla moltitudine migrante. Una vera strategia manageriale appare implementata ai fini di una “inclusione differenziale”. Questo almeno il risultato prodotto. La ripartizione in “categorie” o “tipi di lavoro” dei migranti in ingresso, ordinati in “quote” che, periodizzate, compongono “flussi di immigrazione” contabilizzati in funzione delle esigenze del mercato del lavoro e del sistema produttivo, il “controllo attuariale” – attraverso una identificazione e schedatura preventiva – su gruppi produttori di rischio (De Giorgi, 2000), il confinamento in “campi di detenzione o internamento” hanno difatti l’effetto, reale e suggestivo, di inferiorizzare e spersonalizzare. La stigmatizzazione, mercificazione, criminalizzazione riducono «gli stranieri giuridicamente e socialmente illegittimi (migranti regolari, irregolari o clandestini, nomadi, profughi)» a non–persone (Dal Lago, 1999). E la rimozione sociale, la riduzione a “corpi da lavoro” ha anche una funzionalità gerarchizzante ed economica. I migranti – regolari o irregolari – sono così riducibili a dei moderni “meteci”.
Tuttavia, se questo è lo scenario costruito, istituzionalmente, mediaticamente e anche culturalmente o socialmente, i soggetti migranti non possono dirsi relegati a una condizione passiva, riuscendo a esercitare, concretamente nella prassi, un “diritto di esodo” e di “autodeterminazione”. Le possibilità di una mobilitazione politica, ora al centro delle società occidentali, devono riuscire a far sì che tale diritto sia riconosciuto pienamente, sottraendo definitivamente i soggetti migranti al ricatto dell’illegalità o dell’irregolarità.
Ciò che la ricerca – da cui sono derivate queste riflessioni – rivela, con uno sguardo alle migrazioni come “movimenti sociali globali” è comunque, proprio in rapporto al lavoro e alla valorizzazione, una ridefinizione continua di identità e di appartenenze, il prodursi di soggettività nei termini di un processo, indefinito e provvisorio, e di ibridità, muovendosi i soggetti migranti come in una “terra di mezzo”. Le attività informali o quelle nel sommerso stesse hanno, infatti, le caratteristiche di una “terra di mezzo”, mediando il rapporto dei soggetti con nuove condizioni materiali, ma anche con le appartenenze, i legami e la propria condizione individuale. E sono il sintomo reale della ricerca dell’autonomia.

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