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Blogosfera cinica

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Propongo qui il testo (più o meno) dell’intervento proposto al convegno HoritzoTV di Barcellona.In un testo recentemente pubblicato in RK Geert Lovink riflette sull’evoluzione dei tactical media e ragiona in particolare sul fenomeno del blog, allargando lo sguardo oltre il luogo comune che identifica la blogmania come fenomeno di libertà dal basso. La proliferazione delle fonti di enunciazione contiene un altro aspetto che va sottolineato. Implicitamente Lovink oppone qui certe posizioni di Baudrillard al facile trionfalismo multidinario o democraticista.
“Nel mio libro My First Recession (2003), scrive Geert, “ho tentato di cartografare il risveglio con mal di testa da post-dot-com. In questa ottica il cinismo non è altro che le macerie di un sistema di fede collassato, crisi d’astinenza dopo la corsa all’oro degli anni che in retrospettiva ci appaiono innocenti e ottimistici della globalizzazione clinoniana, (1993-2000), così ben rappresentati nel libro di Hardt e Negri Empire.”

In quegli anni la cibercultura fiorì come utopia della comunicazione orizzontale e della proliferazione incontrollabile delle fonti di enunciazione in movimento. Il mediattivismo nacque da questa utopia, e non intendo certo adesso sottovalutarne l’impatto e i risultati. Ma questo è il passato. Ora è un nuovo passaggio quello che occorre capire: la blogosfera cinica è l’oggetto da interpretare.

“Sarebbe ridicolo, dice Geert, denunciare i bloggers come cinici. Il cinismo non è un tratto caratteriale, ma una condizione tecno-sociale. & Il net-cinismo non crede più nella cibercultura come fornitrice di identità, ma è costituita da una illuminazione fredda.. Il nichilismo non è un’altra epoca in una successione, ma la forma compiuta di un disastro accaduto lungo tempo fa. Per tradurre questo in termini neomediatici: i blog testimoniano e documentano il potere decrescente dei media mainstream, ma non hanno consapevolmente sostituito la loro ideologia con una alternativa. Non c’è nessun altro mondo se non questo si potrebbe legge come una risposta allo slogan antiglobalizzazione.”

“Secondo Gorge Gilder, dice anche Geert, “il capitalismo produce energie creative dovunque e questo porta a una crescente diversità. Ma chi lo ha detto, chiede per finire Geert, che la diversità sia di per sé una buona cosa, pensiamo ad esempio alla perdita e alla scomparsa di ogni familiarità e dei punti di riferimento comuni. ”

Mi collego al ragionamento di Geert Lovink da un altro punto di vista, complementare al suo: il punto di vista della saturazione dell’attenzione e degli effetti che questa produce. Dobbiamo riconsiderare l’intera esperienza net-culturale e perfino l’esperienza mediattivista in termini di economia dell’attenzione e in termini di fragilità psicosferica.

Gli effetti della proliferazione non si possono più considerare unicamente in termini mediologici. Occorre considerarli in termini psicopatologici, altrimenti perdiamo il tratto specifico che oggi sta diventando il più decisivo.
Pensiamo al panico.
Pensiamo all’effetto panico della saturazione.

Social networking

La principale novità culturale della rete negli ultimi anni, in termini di massa è la partecipazione ai siti cosiddetti di social networking. Myspace.com è un territorio abitato da centosedici milioni di persone per lo più giovanissime, ma nel mondo ci sono altri ambienti simili come migente, facebook, con numeri elevatissimi di popolazione. In cosa consiste il social networking?
I ragazzini che escono da scuola invece di andare al bar a giocare a biliardino o di trovarsi nel parco per pomiciare corrono a casa per connettersi e mantenersi in contatto non-contatto.

Altro che social network, in realtà si tratta di una pratica che cancella la socializzazione, o piuttosto (io credo) si tratta di una pratica che risponde al bisogno di desocializzazione. Il contatto, la presenza, la vicinanza diventanon sempre meno sopportabili per la generazione che ha imparato più parole da una macchina che dalla mamma, per bambini che non hanno frequentato bambini, e sono cresciuti attaccati a un mediatore di socialità.

Nel gennaio 2007 gli studenti e le studentesse del liceo bolognese Minghetti hanno occupato per qualche giorno la loro scuola. Interessanti le motivazioni che sono venute fuori.
In una indagine svolta prima e durante l’occupazione stessa una larghissima maggioranza di studentesse (molto meno ragazzi) hanno denunciato l’ansia e lo stress, e il panico. La causa più immediata che hanno indicato le ragazze intervistate è il carico di lavoro scolastico, il sentimento di essere sovrastate dai ritmi che la scuola impone loro.
Sta diventando adulta una generazione che fin dalla prima infanzia è stata sottoposta a un flusso ininterrotto di stimoli informativi, molti dei quali hanno un carattere di sollecitazione competitiva.
Un vero e proprio assedio dell’attenzione da parte del sistema mediatico. La pubblicità lavora sulla percezione di sé, sull’identità in competizione. La televisione e i media virtuali mobilitano costantemente il sistema nervoso sottraendo spazio per la socializzazione, per lo scambio affettivo, per la corporeità. Linguaggio e affettività sono scissi in maniera patogena.

Fino a un paio di decenni fa la sindrome del panico era praticamente sconosciuta. La parola panico aveva un significato indefinito, romantico, aveva a che fare con il sentimento di essere sopraffatti dall’immensità della natura. Ma negli ultimi anni il termine è entrato a far parte del lessico psicopatologico, perché un numero crescente di giovanissimi e di lavoratori (soprattutto quelli che lavorano nei settori in cui si impiega tecnologia informatica) denunciano alcuni fra i sintomi che possono definire una crisi di panico: palpitazioni, cardiopalmo, o tachicardia, sudorazione, tremori fini o a grandi scosse, sensazione di soffocamento e di asfissia, dolore al petto, nausea o disturbi addominali, sensazioni di sbandamento, di instabilità, di testa leggere o di svenimento, derealizzazione, paura di perdere il controllo o di impazzire, sensazioni di torpore o di formicolio.

Gli psichiatri non sono in grado di indicare le cause di questo fenomeno, probabilmente perché sfugge al loro campo. Il panico si può definire come una reazione dell’organismo posto in condizioni di sovraccarico informativo. L’organismo riceve troppe informazioni per poterle elaborare affettivamente, e per poter costruire strategie di comportamento razionale.

Per completare il quadro patologico occorre ricordare che un numero crescente di bambini e di ragazzi nella prima adolescenza soffrono di quella sindrome che gli psichiatri americani hanno definito Attention deficit disorder: una incapacità di concentrare l’attenzione su un oggetto mentale per un tempo superiore ai pochi secondi. Non è forse del tutto comprensibile, se teniamo conto del fatto che l’ambiente cognitivo nel quale queste persone sono cresciute è un flusso psicostimolante che sposta continuamente l’oggetto dell’attenzione, come accade nelle pratiche del multitask o dello zapping? Non è forse del tutto comprensibile, visto che l’ambiente di formazione videoelettronico tende a scindere l’esperienza cognitiva e linguistica dal contatto corporeo e dalla socialità affettuosa?

Nel loro libro L’epoca delle passioni tristi Bensayag e Schmit giungono alla conclusione che la percezione stessa del futuro è divenuta fonte di panico e di depressione.
“La tradizione della psichiatria fenomenologica descrive la depressione come un’esperienza di vita in cui uno sente di non avere più tempo, di avere il tempo contato e di non avere più spazio fino al punto che sentendosi braccato incorre in un autentico stallo esistenziale. Il tempo scorre a gran velocità e non c’è posto in cui scappare: la persona depressa ritrova dappertutto il già noto. Non esiste luogo o rifugio che le consenta di sfuggire alla trappola della depressione. Ora, questa descrizione della depressione si attaglia perfettamente alla vita quotidiana di decine di milioni i persone che non si considerano affatto depresse, ma vivono in un mondo in cui sembra che il tempo acceleri perché l’economia le minaccia, la competizione non permette di prendere tempo. E simultaneamente lo spazio si riduce: tutti i posti del mondo tendono ad assomigliarsi.”
Mi pare che proprio questo sia il problema posto dalle studentesse del liceo Minghetti.

tactical media e psicosfera an-empatica

Negli anni ’90 e nei primi anni ’00 si è parlato molto di tactical media. Il mediattivismo si è in fondo identificato con i tactical media. Ma questo era solo un aspetto, solo una parte del quadro. Cosa si intende con l’espressione tactical media? Si intendono quelle concatenazioni e quei dispositivi mediatici che possono essere usati per destrutturate il Mediascape e per detournare complessivamente il suo funzionamento. Certamente Internet ha funzionato come il generatore principale di media tattici, negli anni a cavallo del secolo.

Ma non si può dimenticare che la tattica è incardinata entro una strategia. O la strategia è consapevole oppure essa si impone come un destino. Coloro che hanno lavorato sul terreno dei media tattici si stanno rendendo conto di non possedere (più) una prospettiva strategica. L’uso tattico dei media è una battaglia senza soggetto, una battaglia che finiamo per condurre per il re di Prussia. E chi è oggi il re di Prussia, cioè il nemico al cui servizio siamo inconsapevolmente arruolati? E’ la saturazione, e la conseguente automatizzazione delle procedure di ricezione-decodificazione-elaborazione.

Perciò il mediattivismo attraversa una crisi di prospettiva, e su questa crisi occorre puntare lo sguardo, se non vogliamo rimanere vittime di un’illusione ottica. La potenza della rete si è moltiplicata, la rete ridefinisce il funzionamento dell’intero mediascape. L’utente mediale è sempre più un fornitore di informazione. Il paradiso della cibercultura reticolare si è dunque realizzato? Questa è l’illusione ottica. La realtà è di tutt’altro genere.

Occorre spostare lo sguardo dall’Infosfera verso la Psicosfera, uscire dal campo della mediologia e considerare il campo antropologico su cui i media lavorano. Cosa accade nel campo antropologico, cosa accade nella Psicosfera? Succede semplicemente che il punto della saturazione è raggiunto e superato, e che gli utenti umani, apparentemente fornitori di informazione sono in effetti trasformati in terminali semi-coscienti e semi-sensibili di un funzionamento che è ormai largamente automatico del Superorganismo bionformatico.

Finché concentriamo l’attenzione sulle concatenazioni macchiniche, il quadro che emerge è quello di uno straordinario potenziamento dell’utente. Perciò la prima generazione videoelettronica ci appare come una generazione dotata di ultrapoteri, in quanto si trova tra le mani ordigni comunicativi e quindi politici di immensa duttilità e di grande potenza distributiva. Quando mai una generazione giovane ha avuto la possibilità di usare strumenti così pervasivi, così diversificati come quelli che Internet mette a nostra disposizione?

Ma la prima generazione videoelettronica non è in grado di produrre soggettivazione per ragioni che sono iscritte nella sua formazione psico-cognitiva. Quella che si sta verificando è una sorta di disattivazione di quelle funzioni cognitive che rendono possibile empatia, cioè la percezione dell’altro come continuazione psico-erotica del sé

L’elaborazione emozionale dell’informazione richiede condizioni (tempo, contatto, sguardo) che non esistono più. In un certo qual modo è stata cancellata la possibilità stessa di una maturazione emozionale. L’apprendimento del linguaggio è stato sconnesso dalla carnalità, per la generazione che ha appreso più parole da una macchina che dalla madre.

Un organismo cosciente incapace di elaborazione emozionale dell’informazione non ha più alcun contatto con la sfera del sensibile, ha perduto per così dire ogni sensibilità singolare.

Naturalmente è qui necessaria una sospensione del giudizio etico e del giudizio politico: non possiamo valutare il senso e le possibilità esistenziali e politiche di una generazione che si sta emancipando dalle sue caratteristiche umane. Occorreranno criteri di valutazione postumani come l’oggetto della analisi. Ma fin quando non disporremo di questi criteri (e non potrà che essere la prima generazione postumana ad elaborarli) quel che possiamo dire è che nella fenomenologia del comportamento, del linguaggio e dell’espressione artistica di questa prima generazione videoelettronica prevalgono sofferenza, disprezzo di sé, violenza. E soprattutto autismo, incapacità di “sentire” l’altro, dunque di percepire il piacere dell’altro (diluvio di pornografia e di sessuofobia mascherata da esibizionismo) e di “sentire” la sofferenza dell’altro (diluvio di violenza senza senso e senza intenzionalità, tortura on line).