interview à la Stampa«Ma quali bande! L’esplosione delle banlieues non è una jacquerie
estemporanea. E anche se lo fosse, lo sarebbe in un contesto sociale
radicalmente mutato, i cui tratti di fondo sono la crisi del fordismo, e
l’assenza di risposta politica – non solo in Francia – a questa crisi.
Per questo per me resta una rivolta; ma potrei anche dire insurrezione,
se intendiamo il termine in un’accezione tenue». È ovvio cosa manca per
parlare di insurrezione autentica, «manca una coscienza politica degli
obiettivi, quello che Marx chiamava il “per sé”. Questo movimento vuole
qualcosa, ma non sa ancora cosa vuole». Toni Negri, il cattivo maestro
dell’Autonomia, l’uomo che nel ’79 fu arrestato per «insurrezione armata
contro lo stato italiano» (condannato a trent’anni, la pena fu ridotta a
tredici), è tornato. Di nuovo al centro del dibattito, dopo che il New
York Times ha dedicato un paginone al suo Impero, scritto con Michael
Hardt, e dopo che le Nouvel Observateur l’ha inserito tra i venti grandi
filosofi del secolo, Negri è reduce da Mar del Plata, Argentina, dove ha
seguito la protesta anti-Bush. Ora è seduto nel salone della sua nuova
casa veneziana, libri alle pareti, moltissime riviste anglosassoni, le
ultime copie di Le Monde appoggiate su un tavolino.Molta della stampa internazionale ha provato a leggere l’esplosione
delle banlieues vedendoci il fallimento del modello di integrazione
francese. E’ una spiegazione che la convince?
«Per niente. E perché, forse il modello anglosassone non ha fallito
ugualmente? Guardi l’America di New Orleans, o l’Inghilterra del 7
luglio, con i terroristi che nascono inglesi nel senso più profondo del
termine, inglesi vestiti come loro, ragazzi che prima di farsi bomba
vanno al pub e si ubriacano di birre… Il punto non è il fallimento dei
due modelli multiculturali».
Ora dirà: c’entra l’organizzazione del lavoro.
«Gli elementi nascosti dietro le banlieues in fiamme sono almeno tre.
Quello che è in crisi è il modello industriale fordista, che prevedeva
l’occupazione permanente, e uno schema di crescita indefinito, sostenuto
dallo stato. Poi questa crisi s’è coniugata con i processi di
mondializzazione economica. A questo si saldano politiche neoliberali di
blocco della spesa pubblica, che producono una crisi degli interventi di
welfare. Altro che l’integrazione, qui il problema è la totale assenza
di risposta politica alla crisi del fordismo. Questa mancata risposta è
legata alla crisi della rappresentanza democratica».
Però scusi, perché le periferie sono in ebollizione solo in Francia, e
in Italia no? Le dinamiche postfordiste sono le stesse anche noi.
«In parte perché siamo una società socialmente meno avanzata. E poi
perché, per paradosso, questi fermenti da noi si sono in parte esauriti.
Gli anni settanta hanno scaricato un potenziale di lotte sociali; o
meglio, l’Italia, o la Germania, hanno allungato dieci anni il
sessantotto. Ma così ne hanno anche diluito gli effetti. Però attenti:
movimenti di protesta da noi ci sono già. La Val di Susa, i movimenti
per la casa nelle città, le battaglie dei migranti contro i cpt…».
Prodi dice che presto esploderanno anche le periferie italiane. Dunque
per metà è d’accordo con lui?
«Mah, Prodi per un verso esagera, e dubito che sappia davvero qualcosa
delle periferie. Quanto a Fini, beh, per lui il fatto che non ci sia
un’esplosione vuol dire che non c’è il problema… Berlusconi non sa
cosa dire. E poi come fa a parlare di immigrazione, stretto com’è tra
Calderoli e le furbizie dei democristiani alla Pisanu?».
E i francesi? Nel 1990 Mitterrand si chiedeva «cosa può aspettarsi un
giovane in un casermone laido, sotto un cielo grigio, con la società che
distoglie lo sguardo?». Eppure il degrado è continuato, inarrestabile.
Il socialismo francese buone intenzioni e cattiva coscienza?
«Guardi, io penso siano personaggi diversissimi; ma sia Mitterrand che
Chirac, un repubblicano e un monarchico, avevano capito benissimo cosa
sarebbe successo. E come loro, le élites francesi, soprattutto il grande
apporto conoscitivo che la sociologia dà all’amministrazione francese,
avevano perfettamente in testa le dinamiche esplosive che maturavano
nelle banlieues: ma cosa potevano fare? Sono stati aggrediti loro stessi
da questa ondata neoliberale, che esaspera i conflitti e le rivolte, e
ha impedito loro qualsiasi possibilità di dirigere la trasformazione».
Perdoni, significa che i politici sono scusati in anticipo. Se è sempre
colpa della dinamica neoliberale…
«Certo che no. Dico solo che le rivolte sono espressione dell’incapacità
del neoliberismo di farsi politica statale. Non parlo solo di dirigismo,
ma della capacità dello stato di esercitare governance, cioè mettersi in
contatto permanente coi movimenti. Una capacità che il fordismo, con
tutti i suoi mali, aveva».
Sarkozy ha chiamato «racaille», feccia, i giovani delle periferie. Oltre
agli scenari, c’è poi la politique politicienne, no?
«Sarkozy è stato imprudente e imperdonabile. Ma non è la prima volta che
un politico in Francia chiama racaille i giovani di banlieue:
gliel’hanno detto mille volte. Solo che adesso la gente è esplosa. C’è
un evento».
Fa un po’ effetto però che in quella che lei chiama «rivolta» si brucino
le Renault dei lavoratori, e non le Porsche Cayenne degli spacciatori.
Che rivolta è?
«Il fatto è che gli spacciatori le macchine ce le hanno in garage!
Conosco bene alcune scuole di Epinay sur Seine. È l’unica banlieue in
cui c’è stata solo una decina di macchine bruciate ma non un’esplosione
come quella di Clichy. E sa perché? Perché forse a Epinay regge
l’equilibrio basato sui mullah e sui signori della droga. Anche in
Italia, dove c’è la mafia spesso non c’è rivolta».
Ciò non toglie che si bruciano macchine di gente inerme, e si picchiano
persino handicappati. Non proprio il nostro immaginario di lotta
sociale, no?
«Dinanzi a queste spinte epocali cosa sono un pugno di macchine
bruciate? E poi hanno bruciato le macchine perché la gente non è scesa
in strada a difenderle. Mi creda, la gente, in quei quartieri, non è
così contraria a quei ragazzi».
Molti sono intimiditi. Un pensionato di 61 anni è stato ucciso proprio
perché difendeva quelle macchine. Parlare di «insorti» non significa dar
loro una legittimità che non hanno?
«Non sono cinico. Né machiavellico. Ho per chiunque viene ucciso tutta
la compassione umana e il dolore. Ma non mi turberei davanti al fatto
che in un incendio di queste proporzioni ci sono solo due morti. E
allora cosa ne facciamo dei due elettrificati? E quanti ragazzi feriti
ci sono? E quanti di questi ragazzi sono morti in altre occasioni di
demenza razzista?».
Non negherà che chi colpisce cittadini inermi dà buone ragioni a chi
inclina a una visione solo repressiva del problema.
«Non c’è dubbio che Sarkozy abbia provocato, anche se non si aspettava
la reazione che c’è stata. Per di più, prima e dopo, ha ripetuto un
atteggiamento ipocrita, proponendo misure di discriminazione positiva:
aiutiamo i negri buoni e reprimiamo i negri cattivi».
C’è chi l’ha accusato di calcoli politici in vista delle presidenziali.
«Sarkozy ha un problema: evitare che la destra possa togliere un grande
spazio politico alla candidatura gollista. Sia Le Pen che De Villiers,
quest’ultimo un po’ più manovrabile dai gollisti, possono erodere molti
consensi. E invece Sarkozy pensava a un’egemonia sull’intera destra.
Oggi quel progetto mi pare in crisi».
De Villepin invece ha promesso aiuti economici.
«De Villepin e, probabilmente, Chirac, hanno assistito inizialmente
guardinghi; poi hanno reagito da par loro, da un lato promettendo
ordine, dall’altro cercando di recuperare il recuperabile di quelle
periferie. Ma alla fine potrebbe anche spuntare una terza candidatura
gollista».
Anche la sinistra, onestamente, arranca.
«Benissimo, per quanto riguarda la sinistra ufficiale. Ma la sinistra
ufficiale è oggi minoritaria, in Francia. Maggioritaria è piuttosto la
sinistra che ha detto no alla Costituzione europea: è una sinistra
sovranista, repubblicana in maniera esasperata, che non ha nulla da dire
rispetto alle banlieue».
E gli intellò parigini? Non è che si siano sentiti molto.
«Ma quando mai si sono fatti vivi, durante tutti gli ultimi grandi
avvenimenti sociali interni? Stanno studiando dove si rigira la vela del
potere».
La «rivolta» si può indirizzare a sbocchi positivi?
«La logica del primo ministro non va molto oltre la carità, mentre qui
occorrerebbe una vera apertura di processi di partecipazione, che sono
cose serie – altro che le primarie italiane, oh che belle, dove tutti
votano e tutti sono inclusi! – La partecipazione è messa in discussione
dei rapporti di potere, scuole che funzionano, casse di risparmio che
abbassano i tassi di interesse…».
Anche lei dice che per parlare di «insurrezione» autentica qui manca il
fine politico. Dove sono le richieste di questi giovani?
«Il problema è che sanno cosa non vogliono, non cosa vogliono. È un gran
casino. Il mio amico Patrick Braouezec, l’ex sindaco ora presidente
della Regione della Saint Denis, l’altro giorno ha detto che qui ci
vuole una nuova intesa di Grenelle, l’accordo sindacati-governo fatto
nel ’68, con Pompidou al governo per bloccare il sessantotto. Ma allora
gli operai chiedevano aumento del salario, revisione della struttura
gerarchica, apertura a forme di welfare. I ragazzi di banlieue possono
solo cercare una via di fuga. Non le sembra che un diritto alla fuga sia
diventato un diritto umano? Certo, la stagione di Seattle è finita. Ma
la fine del ciclo altermondialiste ha fatto nascere un ciclo di lotte
che si è completamente giovato dei movimenti precedenti. In Francia come
in Argentina».
Le donne islamo-francesi sulle barricate parigine non ci sono, ha
notato? Ha ragione Olivier Roy, non ci sono perché sono più brave dei
maschi, si integrano di più, dunque hanno meno rabbia? Oppure perché i
fratelli e i mariti le tengono segregate?
«Io sarei cauto. Lei dice che non ci sono? Mah. Sono stato da poco a
Teheran e ho visto come le donne giocano l’hijab in chiave sempre più
rivoluzionaria, abbassandolo un centimetro di più ogni ora. Eppure non
si vede. E a Parigi magari non sono state fotografate ma cosa crede, che
questi giovani che bruciano auto non facciano l’amore? Che dietro ognuno
di loro non ci sia una donna? Il vero film per capire la banlieue non è
L’odio di Kassovitz, metallico, freddo. Il vero film è L’esquive, La
schivata. Una professoressa cerca di far recitare a una classe
arabo-maghrebina un testo di Marivaux. All’inizio tutti si applicano.
Poi qualcosa si rompe. E proprio le vicende erotiche e affettive che si
instaurano tra i ragazzi produrranno la rivolta. Alla fine la classe si
rifiuta di recitare il Gioco del caso e dell’amore, che è la commedia
della borghesia bianca. Allo stesso modo, anche le ragazze
islamo-francesi della banlieue usciranno profondamente modificate, e
partecipi di questa rivolta».
Negri, lei crede ancora nell’uso della violenza politica come soluzione
ai problemi della crisi postindustriale nelle società occidentali?
«Con Michael (Hardt, ndr.) abbiamo cercato di immaginare un esodo da
questa società in crisi. Nell’esodo, come Mosè aveva Aronne, bisogna
avere delle retroguardie, che usino anche le armi, ma per difendersi. La
resistenza è questo, perché la realtà è fatta così, il mondo è fatto
così; e la Moltitudine opera in questo mondo, a caccia di quella via di
fuga che nelle banlieues stanno cercando, senza ancora averla trovata».