Débat autour d'Empire

Toni Negri in cattedra: una lezione di metodo

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(«www.scriptamanent.net», anno II, n. 15, settembre 2004)Un autore che chiede di essere seguito attraverso percorsi di analisi lucida e approfondita, nella direzione di una metodologia di ricerca che fondi nella concretezza dell’attualità il punto di partenza del proprio sviluppo. Tra geopolitica e biopolitica, si avanza cautamente, cercando di non tralasciare nessun punto di vista.
Stiamo riferendoci a «Cinque lezioni di metodo su Moltitudine e Impero» di Toni Negri, una pubblicazione venduta ad un prezzo contenuto (Rubbettino, pp. 88, € 6,50), che può essere una stimolante lettura anche per chi si trova al di fuori del mondo universitarioLorenzo Mazza illustra le teorie su «moltitudine» e neocapitalismoIl procedere del libro verso la ricerca di un metodo
Il libro riporta il contenuto di un seminario in cinque lezioni, condotto dallo studioso nell’ambito del dottorato di ricerca in Scienza, tecnologia e società” presso il Dipartimento di Sociologia e Scienza politica dell’Università della Calabria.
I vari capitoli si sviluppano in modo indipendente, richiamandosi l’uno con l’altro, caratterizzati dalla densità del ragionamento accademico unita alla freschezza del discorso orale (trascritto minuziosamente da Paolo Fedele).
Nel procedere per mezzo di annotazioni, ricche di rimandi ad autori e punti di vista, Negri dispensa buoni consigli di lettura – uno fra tutti il «Il posto dei calzini. La svolta linguistica dell’economia e i suoi effetti sulla politica» (Bollati Boringhieri, pp. 136, € 12,39) di Christian Marazzi -, alternati a momenti di vivacità comunicativa che chiamano in causa la figura di un interlocutore diretto e consapevole, cui rivolgersi durante le lezioni. La lettura del volume è comunque facilitata da una revisione che l’autore stesso ha apportato al testo, per facilitare al lettore il percorso, costellato di rimandi, che lo renderebbero, altrimenti, fonte di conoscenza ad uso esclusivo degli addetti ai lavori.
Qui seguiremo alcune delle linee di maggiore forza lungo cui si snoda l’intera argomentazione, cercando di rinvenire l’ordine di causazione con cui esse si presentano. All’inizio sono esposte due delle tesi di «Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione» (Rizzoli, pp. 460, € 10,00), il volume redatto insieme a Michael Hardt: «Non c’è globalizzazione senza regolazione»; «la sovranità degli stati nazione è in crisi», in quanto nei settori della cultura, della lingua e dell’informazione è in atto un processo di ridistribuzione e ribilanciamento della sovranità.
Vengono presentate poi, di seguito, le posizioni sulla relazione tra sviluppo della globalizzazione e sviluppo della democrazia, maturate nel corso dei secoli all’interno dei rapporti e delle dinamiche di potere (sia di destra sia di sinistra). A questo punto, dopo aver dato conto del peso teorico del pensiero politico nel corso della storia, Negri sottolinea che «non si può cogliere il problema dell’ordine globale dalle sue conclusioni, ma bisogna considerarlo come processo, dal punto di vista delle dinamiche che lo producono» e invita quindi a seguirlo lungo una propria strada, alla ricerca del metodo che possa condurre ad un più ampio orizzonte di vedute.

Lavoro immateriale e captazione: le dinamiche dell’“impero”
Mettendo a fuoco la nozione di “impero”, attraverso una breve periodizzazione storica, il filosofo padovano arriva a toccare uno dei motivi centrali della sua riflessione: la transizione tra lavoro materiale e lavoro immateriale. Si tratta di un argomento che trova un approfondimento nella seconda lezione, richiamando l’attenzione sul «Frammento sulle macchine» di Marx e sul cambiamento del tempo del lavoro, tempo che viene sempre più spesso a coincidere col tempo della vita.
Nell’era del capitalismo cognitivo si dà sempre maggiore importanza all’attività creatrice intellettuale, il cui valore viene costantemente captato, acquisito dall’alto. Per questo motivo il capitale diventa parassitario, in quanto crea profitto valorizzando la ricchezza prodotta da reti che non gli appartengono.
Se nell’epoca del fordismo il controllo era quello dei corpi nelle fabbriche, nel postfordismo il controllo si esercita indiscriminatamente sulle masse di popolazione passiva, attraverso la guerra, la paura, il consumo, l’uso pervasivo e analfabetizzante di mezzi di comunicazione quali la televisione. Il paradosso è che, essendo il controllo stesso la tecnologia del potere, esso viene percepito come normale. Ma per altri versi, la trasparenza con cui oggi si presentano i processi di globalizzazione nel loro estremo radicamento nel mercato non potrà nascondere ancora per lungo tempo l’enorme sbilanciamento a livello distributivo delle ricchezze, esercitato dal governo mondiale degli interessi corporativi.
In risposta al controllo strategico delle menti, nel metodo di Negri si rifiuta l’esistenza di ogni metafisica, di ogni trascendenza, di ogni fuori insomma, «per ritrovare nell’umanità la capacità di produrre, ritrovare i valori per i quali la gente lavora e produce».
La speranza è che il lavoro mentale e linguistico continui a perseverare lungo la strada del cooperativismo, il nuovo parametro che gli permetterà di diventare lavoro vivo, ovvero attività radicata in tutti gli uomini per tutti gli uomini. In un’ibridazione continua, proposta dall’intellettualità ad ogni produzione, il lavoro si va facendo sempre più immateriale. Il metodo è lavoro vivo in termini di conoscenza.
Quando spunta fuori la biopolitica (ne parla Foucalt come «l’insieme dei viventi che si costituisce in popolazione»), essa riassume in sé il passaggio dal politico all’etico, come azione ed esistenza politica dal basso: «Qui si tratta di decidere ed è attorno al problema della decisione che nasce il politico».
La chiave di lettura di questa ontologia sociale è che il lavoro immateriale non esige comando: il lavoro, organizzato in forme comunicative e linguistiche, costituisce una totalità di conoscenza supportata e messa in produzione dalla totalità degli individui, l’intellettualità di massa.

L’emergere della “moltitudine”
Il desiderio di sfuggire alle dinamiche di «global apartheid» messe in atto dall’“impero” (nella forma del biopotere, esercitato dall’alto dallo stato) – suddividendo, bloccando e subordinando la capacità d’espressione del valore a tutti i livelli – spinge un nuovo attore individuale e collettivo ad emergere: la “moltitudine”. Ma – attenzione – non si tratta di scappare via, bensì di porsi come alternativa.
Derivando direttamente da Spinoza la percezione filosofica di un essere che si dà in chiave costitutiva, Negri propone di considerare la “moltitudine” come un insieme di molteplici singolarità, una molteplicità non schiacciata nella massa ma dotata di un proprio sviluppo, indipendente e mentalmente produttivo. Ci si oppone in qualche modo alla creazione di un prototipo umano unico, rispondente alle leggi anarchiche del libero mercato, per proporre un soggetto la cui consapevolezza cresca in rapporto direttamente proporzionale con la propria volontà e capacità di rendersi sovrano.
Il semplice esercizio della sovranità non basterebbe, esso darebbe per scontato l’uso delle vecchie forme della politica.

Pratiche sostenibili e proponibili di biopolitica
Ciò che è rimasto escluso dalle lezioni, per forza e per fortuna – visto lo spazio concentrato della riflessione -, è un inquadramento di ricerca di respiro più ampio, designato a stimolare propositi, pratiche sostenibili e proponibili di biopolitica dentro, oltre e ancora dentro le “moltitudini”.
Tuttavia l’autore con questo “parlato” che ci coinvolge un obbiettivo l’ha, comunque, centrato: ha fatto spalancare gli occhi a chi lo ascolta di fronte ad una realtà che può inizialmente apparire aliena, altra”, poiché è difficile riconoscersi in essa come soggetto attore, vista la nostra passività. L’immersione nel linguaggio di Negri – certamente tecnico ma mai scontato – ci riporta al metodo della sua analisi, che si sviluppa per concatenazioni. Proprio nelle modalità espressive nasce l’esigenza, speculare a quella presente a livello sociale, di mettere in campo parole e ragionamenti che trovino motivo primo della loro esistenza proprio nel rapportarsi con gli altri, con la totalità.
Seguendo una linea di pensiero che passa attraverso Nietzsche, Foucault e Deleuze, possiamo considerare la soggettività esclusivamente come il prodotto di un insieme di relazioni. Essa riemerge nella dimensione della biopolitica, dove una singolarità rinata è la materia, la fibra di un tessuto forte in cui «lo scontro è motivo di progresso e le differenze non si perdono».
La progressiva creazione di un sostrato di volontà comune, autonomo ed assoluto, attraversa la “moltitudine” ponendola contro la guerra. È il segno che la resistenza all’“impero” viene messa in atto attraverso la consapevolezza che esiste un’eccedenza immediata e continua del sapere. È un’eccedenza che si sviluppa in rete, mediante l’introduzione, l’accostamento, la “ricombinazione”. Se vogliamo avere la sicurezza di una democrazia in futuro, dobbiamo garantire forme di rete a questa democrazia.
Lo sviluppo del “comune” è il frutto del connubio tra libertà e lavoro, all’insegna di una ritrovata dimensione “realizzante”. La vita ormai fa parte del campo del potere, in tutto e per tutto. Subiamo il potere nelle molteplici e impercettibili forme del controllo: controllo del nostro aspetto esteriore, della nostra personificazione in ruoli, controllo dei nostri consumi, anche e soprattutto a livello cognitivo.
La macchina imperiale indirizza la nostra economia dell’attenzione – dirige il nostro sguardo interessato – verso sicuri approdi.

Il movimento dei movimenti
La “moltitudine”, costituita dalla classe sociale non operaia, si è posta da Seattle in poi nella condizione di costruire un’etica contro il potere nelle sue forme tradizionali, fuggendo le disumane pratiche della postmodernità, che smembrano il soggetto dall’interno o dall’esterno, rapportandolo ad altri soggetti per classificarlo e quindi smaterializzarlo, facendone un oggetto.
Riprendendo da«L’anti-Edipo» di Deleuze e Guattari (Einaudi, pp. XL-448, € 27,00) un’etica che si configura come linea del desiderio – sviluppo della “cupiditas”, della potenza costruttiva – Negri definisce l’etica stessa come la maniera in cui ciascuno costruisce se stesso come soggetto morale all’interno di un insieme di relazioni.
Il paradosso dell’odierno nasce però dalla constatazione che non esiste movimento sociale che non sia iscritto all’interno di un quadro di “capitale” e non debba quindi costantemente confrontarsi con uno stato di cose, magari derivarne alcune pratiche sostenibili, prima di porsi come alternativa.
Ritorniamo quindi alla questione più annosa: il vissuto dei movimenti sociali, percorsi da una causalità continua e trasformativa, si scontra oggigiorno con quella che sembra essere la necessità di costituire un dialogo con alcune delle forme della politica.
Secondo Negri il desiderio del “comune” deve essere istituzionalizzato, trasformandosi in potenza costituente. La sfida che si pongono i movimenti è quella di cambiare il mondo senza prendere il potere nelle forme tradizionali, cercando di fare un altro potere, che renda attivi tutti i soggetti nella dimensione biopolitica.

Una logica della ricerca necessaria
«A me sembra che insistere sulla configurazione singolare e comune dei nuovi soggetti della produzione e sullo sfruttamento che su di loro si approfondisce, che viene avanti all’interno di queste cose che danzano, che si muovono davanti a noi nel postmoderno, sia l’unico modo in cui possiamo cominciare a far risuonare una tonalità forte della ricerca».
Nel portare avanti il discorso sopra una logica della ricerca, si cerca quindi di renderla necessaria, facendo in modo che implichi direttamente l’agire, coniugando nel medesimo istante prassi ed episteme, fondendo etica e politica nei processi conoscitivi. Si va verso una dimensione essenziale nella modalità di definizione dei concetti di moltitudine e cooperazione, auspicando di poter intravedere nel futuro prossimo forme più avanzate di produttività del reale.