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Trentatre lezioni su Lenin

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Manifestolibri 2004 pp.336 24,00 €)Lenin, la sua inventiva politica e il suo pensiero sono ormai da buttare? Molti stereotipi sostengono di sì. Questa lettura, condotta nella tumultuosa temperie degli anni ’70, sostiene il contrario individuando, nel metodo teorico e pratico del leader bolscevico, un elemento di rottura radicale che fa parte a pieno titolo della storia della modernità occidentale. In queste lezioni Negri illustra gli aspetti più decisisvi dell’opera e dell’azione di Lenin: l’analisi delle classi, la centralità teorica della prassi sovversiva, il partito come soggetto dialettico dinanzi al movimento delle masse, la rivoluzione permanente, il comunismo come latenza percepibile e vicina. La conoscenza di questo personaggio storicamente decisivo, che anche altri autori hanno riproposto recentemente, resta fondamentale per comprendere le contraddizioni e i conflitti del Novecento ma anche per affrontare le asperità e i nodi irrisolti di ogni rottura con l’ordine dominante. Prefazione

Questo libro risale nella sua forma attuale al 1972/73, ma alcune delle sue parti sono state redatte (o avevano ricevuto una redazione parziale) già dieci anni prima. Naturalmente la forma in cui si presentano questi saggi è quella definitiva. Ripubblicando queste lezioni, non ho ritenuto di ritoccarle, per nulla. Perché? Nella loro relativa ingenuità, sono costruttive, creative, gioiose.
Come era nato questo testo? Come me n’è venuta l’idea e perché ne sono stato profondamente sollecitato dai miei compagni di allora? Negli anni ’70, nel Pci così come dalle parti abbastanza distanti ove io militavo, Lenin era molto presente nel movimento. La discussione sui suoi testi e la collocazione dei movimenti rispetto alla tradizione leninista era essenziale. Tuttavia linee di separazione assai profonde distinguevano il campo leninista. Credo di poter dire che in Italia c’erano due maggiori correnti interpretative che correvano all’interno del movimento operaio a quell’epoca. Nella maggioranza togliattiana del Pci, l’ortodossa adesione al leninismo appariva, quanto più filologicamente fedele, tanto più opportunistica. In quelle temperie il gramscismo veniva utilizzato come teoria riformista della trasformazione sociale e il concetto gramsciano di egemonia interpretato come dispositivo di consenso che doveva sostituire la volontà di potenza e l’indicazione leninista della dittatura del proletariato. (Povero Gramsci, due volte tradito, una volta in quanto pensatore autenticamente leninista e, in secondo luogo, come autore di una improbabile teoria democratica del comunismo). In secondo luogo c’erano, in quel periodo tra gli anni ’60 e gli anni ’70, altri gruppi pseudo-leninisti presenti sul mercato ideologico del movimento operaio e proletario. C’erano soprattutto gruppi M-L, spesso figure organizzative caricaturali, simboliche piuttosto che politiche, finanziarie e appropriative piuttosto che sovversive e cooperative. L’idea del leninismo, in quei gruppi ed in quella sensibilità, era stata accattata nell’immagine stravolta che ne aveva dato lo stalinismo: leninismo significava delega della decisione politica rivoluzionaria a un leader o a un gruppo dirigente, significava feticismo dell’autorità ed esaltazione di una simbologia dittatoriale. In maniera popolare, il comunismo veniva spesso qui rappresentato come chiesa, peggio come setta, talora come contenitore del più sfrenato populismo.
A livello internazionale, oltre le frontiere italiane, erano poi esistite ed esistevano con un’importanza che andava ben al di là delle caricaturali figure della discussione italiana degli anni ’70, forze e programmi che si proclamavano leninisti e che , nella guerra fredda, si opponevano ad entrambe le superpotenze dell’epoca. In queste forze era precisa l’idea che Urss rappresentasse un tradimento del marxismo. Quello che si trattava di percepire era se fosse possibile identificare un’opposizione leninista a questo tradimento del marxismo. Qui dunque, in primo luogo, c’era una corrente che mi interessava molto: erano i bordighisti che polemizzavano – in nome di un duro oggettivismo materialista – contro il volontarismo stalinista. La storia per salti insurrezionali che il leninismo aveva descritto, i bordighisti cercavano di reinterpretarla in una teoria del ciclo rivoluzionario: se questa teoria, in primo luogo, sembrava allontanare la speranza della rivoluzione, in secondo luogo essa determinava la rivoluzione come un evento del tutto necessario. Avevo avuto in quegli anni, fra i ’60 e i ’70, alcuni amici bordighisti: in Italia alcuni compagni cremonesi, in Francia Robert Paris ed altri. Il bordighismo mi sembrava rispondere ad una istanza rivoluzionaria aperta ed efficace nel suo duplice presentarsi come resistenza e insurrezione, come organizzazione ed evento: mi sembrava dunque che una teoria del soggetto (come quella che allora stavo elaborando) potesse assoggettarsi a questo dispositivo. Queste alternative teoriche al leninismo sono ancora oggi presenti: si possono leggere, senza gran spessore politico, ad esempio in Alain Badiou. C’era poi una seconda linea che mi interessava ancora di più. Alcuni compagni che avevano fatto spola intratlantica tra Europa e Stati Uniti avevano conosciuto i militanti e i teorici di Facing Reality. Essi venivano dal Ranke and File operaio di quella sinistra comunista che negli Usa si era presentata come trockijsmo: essi presentavano linee interpretative del leninismo soggettiviste molto forti, che si collegavano al e rinnovavano il marxismo critico della Dunayevskaia. Il loro soggettivismo era fortemente radicato nella nuova classe operaia del New Deal, si concretizzava nell’inchiesta continua che conducevano sul rapporto fra composizione tecnica e composizione politica del lavoro industriale. Un soggettivismo dunque alto, aperto alle trasformazioni tecnologiche dell’organizzazione della forza lavoro, a quelle sociologiche dello sviluppo e ad una vivace progettazione della transizione rivoluzionaria.
L’operaismo italiano si era altrimenti posizionato rispetto al quadro interno ed a quello internazionale. L’operaismo italiano rappresentava insieme una posizione totalmente revisionista, nei confronti dell’ipotesi di Lenin, e del tutto rivendicativa del suo progetto rivoluzionario. L’articolo di Mario Tronti «Lenin in Inghilterra» fu, da questo punto di vista, l’inizio del nostro discorso. In esso si affermava che, nell’attualità degli anni ’60, l’ipotesi leninista si confrontava ad un mutamento radicale, ad una cesura della composizione sociale del proletariato: ne conseguiva una necessaria revisione del progetto rivoluzionario. Nella rivista Classe Operaia, all’inizio degli anni ’60, tutti noi avevamo accettato questa impostazione del problema Lenin: alcuni compagni lo rinnegarono poi o affidarono all’oblio questo progetto di ricerca… Io ero e resto convinto che esso vada ripreso nella stessa maniera di allora.
Nelle lezioni degli anni ’60-‘70 che qui ripubblichiamo, la prima ipotesi («Lenin continua a vivere, confrontandosi ad una nuova realtà di classe»), l’ipotesi trontiana dunque, ha cominciato ad essere rivista e rielaborata. Il revisionismo rivoluzionario (cioè la percezione del mutamento tecnico della composizione del proletariato cui corrisponde mutamento politico) è in primo luogo elogiato come dispositivo epistemologico e strumento di organizzazione della continuità di un processo rivoluzionario: esso è, naturalmente, fatto, prodotto, riconfigurato da lotte, da vittorie, da sconfitte, ma anche e soprattutto da mutamenti ontologici del soggetto che ne è il protagonista. In secondo luogo, la crisi del marxismo teorico dopo il 1956 (e cioè dopo la pubblicazione dei rapporti su Stalin al XX congresso del Pcus) veniva vista come una crisi positiva, costruttiva, creativa. Le rivoluzioni e le loro necessità, le teorie e le loro possibilità si scambiavano qui il ruolo: oggi la teoria tirava la soggettività e la disponeva ad un nuovo adeguamento al presente. Si aprì allora, per così dire, una sorta di strano «processo patristico»: questo per dire che il rinnovamento del marxismo (come era arrivato al cristianesimo nei primi secoli della sua storia) cominciava a prodursi; sulle rovine e gli errori, sugli scontri politici e le riarticolazioni ontologiche del soggetto, cominciava insomma a configurarsi una nuova sintesi per l’avvenire. In terzo luogo l’ipotesi leninista di rivoluzione ci sembrò molto al di là, e infinitamente più pura, del Termidoro stalinista. Il Terrore rivoluzionario è reale, esso determina una discontinuità storica profonda, distrugge radicalmente la riproduzione delle classi dominanti: ma esso è anche sempre mistificatorio quando, assieme a questa bonifica dello spirito, reintroduce nuovi ceti del dominio e nuove forme di comando. Ora, il Termidoro stalinista non è in continuazione con la rivoluzione leninista: in effetti la continuità del leninismo la si ha solo attraverso gli eterodossi della rivoluzione d’Ottobre… In letteratura e nell’immaginario Majakovskij, Bachtin, Lukács, sono i continuatori di Lenin…Così come nel diritto lo è Pashukanis…Così come in politica lo è Mao. Leggete Die Massnahme di Brecht: lì avrete, nella mostruosità del terrore rivoluzionario, la rivendicazione della originalità eterodossa del dispositivo leninista… Infine, percependo come, dopo il ’56, la teoria potesse riafferrare il posto che, nello sviluppo della lotta di classe, la pratica amministrativa dello stalinismo le aveva tolto, noi riscoprivamo nel leninismo una matrice produttiva di nuove forme organizzative, un’origine sempre più potente nello sviluppare forza rivoluzionaria. Nei primi anni ’70, stavamo vivendo il passaggio dall’egemonia di classe dell’operaio massa e dall’egemonia organizzativa dell’intellettuale esterno, a nuove forme di organizzazione dell’operaio sociale e della forza lavoro interna alla produzione intellettuale: era chiaro che questo processo di trasformazione della soggettività politica non si sarebbe fermato lì. Lo sapevamo, anzi stavamo già percependo l’aurorale presenza di nuove figure organizzative nella prassi e nella teoria rivoluzionaria. Lenin era per noi un saggio metodologico per l’analisi della trasformazione della lotta di classe, era lo sciboleth di una continua rifondazione rivoluzionaria attraverso la trasformazione dei soggetti.
Vorrei qui fare una parentesi e ricordare il clima, i luoghi e le persone che sono stati attorno al lavoro fatto su queste lezioni su Lenin. Come dicevo precedentemente, alcune di queste lezioni (in particolare quelle sui Soviet) erano state già elaborate in articolo nei primi anni ’60. Altre, quelle su Lenin e la teoria del partito, erano state anticipate in qualche lezione alla Sapienza di Roma. Fu tuttavia nell’Istituto di Scienze politiche di Padova che allora dirigevo (vero «cattivo maestro») che queste lezioni furono recitate in trentatré effettive sedute. Sono molto orgoglioso del mio lavoro accademico: preparavo queste lezioni, le dicevo ad un pubblico assai ampio di studenti, venivano registrate. Poi Gabriella ed Elisabetta le scrivevano a macchina. Corressi le lezioni e le misi in forma per la pubblicazione durante l’estate del ’73. Feci il corso su Lenin solo nel ’72-’73: il «cattivo maestro» non si ripeteva per gli studenti… Ogni anno c’era un corso diverso e le discussioni nel seminario settimanale dell’Istituto contribuivano a verificare i temi e a fissare i punti degli interventi didattici nell’anno successivo. Adesso, ripensandoci, devo ammettere che un seminario siffatto era del tutto indigeribile per l’Università italiana: fu, esso stesso, un seminario leninista. Nel ’79 ci misero quasi tutti in galera. Ma (prima) non potete immaginare di cosa, di quanto, di sovversivo fosse stato capace quell’Istituto… Luciano Ferrari Bravo, Sandro Serafini, Sergio Bologna, Guido Bianchini, Christian Marazzi, Maria Rosa Dalla Costa, Lisi Del Re, Ferruccio Gambino e moltissimi altri non ignoti alle cronache intellettuali dell’ultimo trentennio si erano istallati nell’Istituto. E poi vi passavano molti importanti amici e compagni stranieri: da Agnoli a Bruckner, da Harry Cleaver a John Merrington a Selma James; da Moulier Boutang a Coriat, a De Gaudemar…poi gli italiani illustri, sempre in disaccordo, ma obbligati al confronto, da Rossana Rossanda a Trentin, a Carniti; e poi i lavoristi da Giugni a Tarello a Ghezzi… fino al grande Mancini, a Giannini e a Caffe. E poi le ricerche Cnr, che in quegli anni, fra pochissimi istituti universitari, affluivano al nostro Istituto di Scienze politiche: producemmo lavori importanti su argomenti estremamente attuali, dall’analisi delle strutture di centralizzazione e delle procedure amministrative della Comunità Europea fino all’inchiesta diretta sulle trasformazioni del lavoro, fra fabbrica e società, fra lavoro immateriale e lavoro sociale. Insieme, tutto l’Istituto dirigeva un paio di collane scientifiche presso Feltrinelli e varie Cleup…L’ipotesi di una reinvenzione teorica del comunismo e di un superamento insurrezionale delle strutture dello Stato verso la libertà, l’ipotesi leninista viaggiava sempre aggiornata attraverso questo mare di iniziative e di progetti concreti.
L’Istituto fu distrutto da un colpo di mano repressivo, elaborato da un giudice di nome Calogero, ispirato dalle strutture occulte dello Stato, della Democrazia Cristiana e del Partito Comunista Italiano, che consistette nel definire l’Istituto come centro teorico delle Brigate Rosse. L’eroico Magistrato che produsse questo teorema, ha fatto una bella carriera giudiziaria; gli infami delatori e provocatori che produssero prove e cacciarono in galera i professori di questo Istituto sono tuttora deputati della sinistra riformista (ma anche di quella sedicente rivoluzionaria) e/o naturalmente della destra; i professori padovani che sostennero l’operazione, normalmente inetti nel loro lavoro, fecero ottime carriere accademiche, anche se oggi non presentano più (pusillanimi!) il loro lavoro nell’«affaire 7 Aprile» come elemento di curriculum. Eppure potrebbero farlo: la classe politica non è molto cambiata, il suo anticomunismo si è moltiplicato in tutti i sensi, e oggi non c’è neppure più la necessità, per legittimare l’infamia, che un Presidente della Repubblica (il molto onorevole Pertini) approvi solo due giorni dopo, il 9 Aprile ’79, gli arresti indiziari del 7 Aprile…
Non c’è amarezza e neppure scandalo nello scrivere questo. C’è solo disprezzo leninista per tutte le mosche cocchiere, che dicendosi socialiste, servono il padronato. Non c’è neppure il tempo di parlare dello squallore dei mezzi di comunicazione italiani di allora (e oggi?)… ma qui non ci può essere scandalo perché l’infamia è di servizio e la falsità è ben pagata dai padroni dei mezzi di comunicazione. Qui c’è solo la certezza e la denuncia del fatto che la sinistra italiana intera è stata da allora coinvolta nella corruzione del diritto.
Gran parte del pensiero, delle passioni e delle persone che hanno condotto contro queste «trentatre lezioni su Lenin» un’azione repressiva, distruttiva e reazionaria sono morte e finite nell’oblio. Queste lezioni vengono invece ora ripubblicate. Il passaggio politico che in esse si balbetta attorno ad una nuova teoria dell’organizzazione degli sfruttati, fra classe operaia e nuove formazioni proletarie, fra classe operaia e moltitudine postmoderna è ora molto avanzato. C’è qualcosa in più, però: non semplicemente la constatazione che l’epistemologia leninista si è imposta e che quindi il passaggio del testimone rivoluzionario da un soggetto all’altro nel processo storico è davvero del tutto percepibile e da tutti afferrato, c’è anche il fatto che questo passaggio si presenta ormai come tessuto di una rivoluzione globale, della moltitudine contro l’Impero. Certo, molti presupposti che stanno alla base di queste lezioni e molte condizioni che sostengono il ragionamento in esse sviluppato, sono mutati. Ma cosa importa? Le forze soggettive, imponendosi nella storia, mutano i modi in cui noi conosciamo la storia, il movimento della realtà interpreta la realtà stessa. L’astrazione leninista è tornata ad essere reale perché l’utopia leninista è tornata ad essere un desiderio. È molto divertente vedere alcuni grandi letterati borghesi riprendere, in questo momento di trasformazione epocale, la figura di San Paolo come testimone del passaggio: a noi sembra che solo la figura di Lenin abbia, per il comunismo, le dimensioni della rivoluzione paolina. Ci resta un compito: è quello di ricostruire il materialismo storico e la teoria del comunismo nell’età imperiale: sono convinto che queste antiche lezioni rappresentino un’utile introduzione.