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Il divenire-banlieue della politica, il divenire politico della banlieue

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Il manifestoSpesso, parlare per immagini permette di fare l’economia di analisi vere e proprie. Nelle ultime settimane, il ricorso sistematico alle immagini ha precisamente permesso a gran parte della stampa francese – e probabilmente anche a una buona fetta dell’opinione pubblica – di non farsi troppe domande, e di conseguenza di non dover cercare troppe risposte. Immagini a volte facili, in alcuni casi estremamente impressionanti, e che tutte riattivano un’aria di déjà vu sessantottino: una ragazza, sulle spalle di un compagno, che sventola una bandiera sopra una marea di manifestanti, una stranissima parete di lamiere costruita dalle forze di polizia per dividere la Sorbona dal resto della citta, il corpo accasciato di un uomo in mezzo agli scarponi di un gruppo di poliziotti e ai fumi dei lacrimogeni, una folla di giovanissimi, molti striscioni colorati, decine di università et di scuole occupate. E poi: sassate, macchine date alle fiamme, assemblee generali, slogan, cariche, volantini, allegria, paura. Per la prima volta, i giovanissimi rivendicano il loro legame con il maggio francese, i figli sfilano con i padri (e a volte i nonni), le immagini si sovvrapongono.
Eppure se, tra il 2006 e quello che iniziò a Nanterre esattamente trentotto anni fa, ci sono indubbiamente somiglianze, esistono differenze enormi. Le somiglianze, ovviamente, non si riducono all’iconografia classica della protesta. Colpisce per esempio la rapidissima diffusione della parola d’ordine dello sciopero generale per il prossimo martedì 28, anche se le organizzazioni sindacali hannno preferito parlare con dolce eufemismo di “giornata d’azione interprofessionale” (il termine di “sciopero generale” imbarrazzava apparentemente la CFDT). Colpisce anche l’estensione progressiva del conflitto molto al di là del movimento studentesco stesso: un allargamento impressionnante che, forse, permette di sperare nella continuità e nel potenziamento della protesta nonostante la prossimità delle vacanze scolastiche di primavera. Ma mentre nel ’68 il movimento era diventato studentesco e operaio, il movimento del 2006 è semplicemente – e potentemente – diventato quello del precariato in generale. I precari: quelli che lo sono stati e non vogliono tornare ad esserlo, quello che lo sono e non sanno come uscirne, quelli che non lo sono ancora ma sanno che prima o poi toccherà anche a loro. Uomini e donne, giovanissimi e meno giovani, super-diplomati e non, liceali e insegnanti, operai e ricercatori, impiegati e disoccupati. Il ’68 era, nel pieno delle “Trenta Gloriose” e del boom economico, allo stesso tempo l’espressione del desiderio di rompere con modi di vita e valori che erano stati quelli di una generazione (quella dei padri) che aveva fatto la guerra – come in Europa – o che era pronta a rifarla mandandovi i propri figli – come negli Stati Uniti -, e della volontà di imporre una ridistribuzione equa della ricchezza, un’estensione dei processi di modernizzazione, una ridefinizione e una diversificazione dei modelli sociali. Il 2006 è, invece, l’espressione di una rivolta davanti alla precarizzazione generalizzata del lavoro e allo sfruttamento sempre più grande della vita stessa. I manifestanti parigini sono figli (o fratelli) del post-fordismo e della biopolitica. Sapevano già di dover pagare il costo sociale delle nostre pensioni e delle nostre malattie, di dover fronteggiare un riflusso economico insidioso e dei tassi di disoccupazione che niente sembra poter arginare. Con il CPE, sanno anche che non dovranno più contare né sul diritto del lavoro più elementare, né sulla possibilità di iscrivere la loro vita nella semplice durata: se sei licenziabile senza spiegazione, quale banca accetterà di farti il mutuo per la casa? Quale proprietario di affittarti un appartamento? E come fare figli se non si ha la certezza di poterli tirare su? E come programmare vacanze? E come chiedere formazione continua? E come arrischiarsi nell’attività politica? La generazione del maggio parigino chiedeva il diritto a poter sognare. La generazione del marzo 2006 chiede il diritto a poter vivere. Negli ultimi anni, si è spesso sentito parlare della rivendicazione di un reddito universale. Il movimento francese rivendica il diritto universale ad un’esistenza dignitosa, intelligente, senza paure, produttiva, gioiosa.
In questo senso, quello che succede da giorni in Francia (e, ci sembra dovveroso precisarlo, non solo a Parigi ma anche in provicia, con altrettanta potenza) non può essere sconnesso da quello che successe cinque mesi fa durante la rivolta delle banlieues. I giovani delle banlieues non hanno incendiato migliaia di macchine per puro piacere di “giocare allo scontro” grandeur nature: hanno messo in scena la propria disperazione davanti a una vita che altri hanno dichiarato economicamente improduttiva e socialmente pericolosa, priva di ogni prospettiva di costruzione singolare e comune, ridotta a mera sopravvivenza. Oggi, sulla scia della rivolta di ottobre, è un intero precariato che urla il suo rifiuto di diventare a sua volta carne da macello e che, di contro, vuol veder riconosciuta la sua centralità produttiva, la sua ricchezza. Ad ottobre come oggi, tutti chiedono che la loro vita – sempre più essenziale nei processi biopolitici di produzione immateriale e cognitiva – sia garantita nei diritti più elementari. Se la vita è diventata il motore della valorizzazione post-fordista, non può essere schiacciata, dissanguata, dilaniata dal potere. Colpisce da questo punto di vista che buona parte dei padroni del MEDEF (la Cofindustria francese) siano dichiaratamente opposti al CPE: cinicamente, senz’altro, ma con grande realismo, sanno perfettamente che la precarizzazione ad oltranza mette in pericolo ciò di cui precisamente si nutre la produzione: reti, linguaggi, affetti, cooperazione, formazione – insomma: tutto quello che la vita stessa produce. Colpisce anche il fatto che, davanti alla generalizzazione della rivolta, la strategia del governo sia invece quella di ricreare segmentazioni, divisioni interne, linee di confine. A novembre, la squalifica politica dei ragazzi delle banlieues si faceva – con una volgarità assai infame – a partire dalla loro pseudo-estraneità al corpo sacro della Repubblica: chiamati “immigrati” come i loro padri o i loro nonni (mentre erano quasi tutti cittadini francesi da almeno due generazioni), denunciati, a secondo delle sfumature dell’ignobile, come “racailles”, “sauvageons” (selvaggi), “casseurs”, teppistelli, violenti, islamisti ecc. Oggi, la mossa del governo è diventata doppia: da una parte opporre gli studenti universitari (ignorando, ovviamente, l’estensione del conflitto al di fuori delle università) ai ragazzi delle banlieues, i figli di papà ai poveracci, i laureati alla fece dell’umanità, in un cattivo remake dell’opposizione tra giovani borghesi e carabinieri proletari di pasoliniana memoria. Per il ministro Villepin, il CPE, inizialmente pensato come contratto di primo impiego per ogni giovane di meno di 26 anni (in attesa di essere esteso a tutti) è improvvisamente diventato una filantropica misura per lottare contro la disoccupazione dei non-diplomati – vale a dire dei figli delle banlieues, meglio se di origine immigrata -, e i manifestanti sono di conseguenza i peggiori reazionari . I manifestanti, per fortuna, non ci stanno, e tutti continuano a sfilare insieme; ma intanto le voci sui “cattivi” che vengono dai quartieri periferici per dare la caccia agli studenti bianchi durante le manifestazioni circolano e qualcuno prende paura. D’altra parte, si tratta per il governo di fare in modo che i provocatori, i gruppuscoli, le pseudo-avanguardie di assoluta retroguardia – o semplicemente qualche centinaio di ragazzini cretini inebriati dall’intensità del conflitto politico – siano cortesemente lasciati indisturbati a gestire la piazza, specialmente alla fine delle manifestazioni, o qualche occupazione un po’ più debolmente organizzata. Vecchia logica insomma – quella dello schiacciamento del movimento tra polizia e provocazione -, ma che è estremamente pericolosa per un paese che possiede poca cultura di movimento e non è abituato a costruire politica dal basso.
Stiamo molto attenti. La speranza, in Francia, è oggi immensa, ed è ovviamente quella di vincere la partita del CPE. Ma non solo. E’ anche di riuscire a costruire un’altra politica, fatta di mobilitazione transversale e di agire comune, di pratiche da inventare e di spazi da sperimentare. In questo processo che alcuni caratterizzano di moltitudinario, vengono fuori soggettività nuove. I ragazzi delle banlieues hanno per la prima volta potuto porsi come soggetti politici senza che nessuno parlasse in nome loro, li rappresentasse o pretendesse dire per loro ciò che bisognava fare. Dopo ottobre-novembre – che era una rivolta potente e assolutamente politica ma quasi totalmente afasica -, hanno lanciato auto-inchieste, si sono riuniti, hanno comiciato a discutere. In questi giorni, certo, qualcuno ruba telefonini, lancia sassate, mena i ragazzini per bene del centro città, o spacca tutto quello che trova. Ma la stragrande maggioranza di loro ha (ri-)trovato l’indignazione davanti all’ingiustificabile, il piacere del conflitto, la gioia del comune. Sono probabilmente quelli che rappresentano il cuore della protesta. Sono anche quelli che hanno più da perdere: perché non vi giocano solo una partita di braccio di ferro con il governo, ma un intero e formidabile processo di soggettivazione. La loro politicità è dirrompente e forte; ma anche nuova e, in quanto tale, estremamente fragile. Spezzare il filo di questo processo significherebbe cancellare migliaia di volti, ammutolire migliaia di voci, e seppelire ogni possibilità di politica di sinistra per i prossimi vent’anni in Francia.