publié dans “Il Manifesto”, Venerdi 24 novembreLa proposta di un reddito di esistenza o Reddito Sociale Garantito di un livello sostanziale e indipendente dall’impiego (RSG) elaborata nel quadro dell’ipotesi del capitalismo cognitivo é spesso rifiutata avanzando due tipi di critiche.La prima concerne il carattere eticamente inaccettabile di una sconnessione del reddito dal lavoro salariato. Questa critica é sovente alla base delle posizioni che oppongono alla rivendicazione di un RSG, la proposta di una riduzione uniforme del tempo de lavoro in una prospettiva che esprime, in modo più o meno celato, una nostalgia per il modello fordista di pieno impiego.
La seconda critica, legata ad un’insufficiente conoscenza dei suoi fondamenti teorici, consiste nell’equiparare la rivendicazione del RSG a proposte di basic income argomentate con un approccio in termini di fine del lavoro alla Rifkin. Secondo questa interpretazione, la giusticazione principale di un basic income consisterebbe infatti nel fatto che la rivoluzione informatica farebbe dell’impiego una merce rara e, in modo ancor più fondamentale, priverebbe ormai il lavoro del suo ruolo centrale nella produzione di ricchezza. Il basic income é allora concepito come un reddito assitenziale per gli esclusi dalla rivoluzione informatica al fine di regolare un mercato del lavoro sempre più duale.
Sono tuttavia critiche basate spesso su interpretazioni “maliziose” dell’elaborazione teorica alla base della proposta di reddito sociale garantito. Il proposito di questo articolo é di mostrare l’inconsistenza di queste critiche e di dissipare questi malintesi, ricordando i due fondamenti teorici essenziali su cui poggia la proposta di un RSG.
Il primo fondamento riguarda il ruolo di un RSG incondizionato in relazione alla condizione della forza lavoro in un’economia capitalista. La disoccupazione e la precarietà sono qui intese come il risultato della posizione subalterna del salariato all’interno di un’economia monetaria di produzione: si tratta della costrizione monetaria che fa del lavoro salariato la condizione d’accesso alla moneta, cioè a un reddito dipendente dalle anticipazioni dei capitalisti concernenti il volume della produzione e quindi del lavoro impiegabile con profitto. In questa prospettiva, il ruolo del RSG consiste a rinforzare la libertà effettiva di scelta della forza lavoro incidendo sulle condizioni in virtù delle quali, comme lo sottolineava ironicamente Marx, il “suo proprietario non é solo libero di venderla, ma si trova anche e soprattutto nell’obbligo di farlo”. Inoltre, il carattere incondizionato e individuale del RSG aumenterebbe il grado di autonomia delle donne e dei giovani rispetto ai dispositivi tradizionali di protezione sociale ancora incentrati sulla famiglia patriarcale.
Da questa concezione derivano due corollari essenziali. In primo luogo, l’importo monetario del RSG deve essere sufficientemente elevato (almeno la metà del salario mediano) per permettere di opporsi all’attuale degradazione delle condizioni di lavoro e favorire la mobilità scelta a discapito della mobilità subita sotto la forma di precarietà. Inoltre, il RSG permetterebbe anche un effettiva diminuzione del tempo di lavoro. La garanzia di continuità del redditto permetterebbe infatti a ciascuno di gestire i passaggi tra diverse forme di lavoro e d’attività riducendo il tempo di lavoro sull’insieme del tempo di vita in modo più efficace che attraverso una riduzione uniforme del tempo di lavoro sulla settimana lavorativa, come mostra anche il relativo fallimento dell’esperienza delle 35 ore in Francia.
In secondo luogo, la proposta di RSG si iscrive in un progetto più ampio di rinforzamento della logica di demercificazione dell’economia all’origine del sistema di protezione sociale che si propone di completare salvaguardando le garanzie legate alle istituzioni del Welfare (pensioni, sistema sanitario, indennità di disoccupazione, ecc).
Il secondo fondamento della nostra concezione del RSG consiste nel considerarlo come un reddito primario, vale a dire un salario sociale legato ad una contribuzione produttiva oggi non remunerata e non riconsciuta.
Infatti, contrariamente agli approcci in termini di fine del lavoro, la crisi attuale della norma fordista dell’impiego é lungi dal significare una crisi del lavoro come fonte principale della produzione di ricchezza. Al contrario. Il capitalismo cognitivo non é solo un’economia intensiva nell’uso del sapere, ma costituisce al tempo stesso e forse ancor più del capitalismo industriale, un’economia intensiva in lavoro, benché questa dimensione nuova del lavoro sfugga sia alla sua misura ufficiale, né può essere del tutto assimilata alle forme canoniche del lavoro salariato.
Questa trasformazione trova la sua origine principale nel modo in cui lo sviluppo di un’intellettualità diffusa e la dimensione cognitiva del lavoro hanno condotto, a livello delle fabbrica come della società, all’affermazione di un nuovo primato dei saperi vivi, mobilizzati dal lavoro, rispetto ai saperi incorporati nel capitale fisso e nell’organizzazione manageriale delle imprese. Da questo deriva anche la crisi del “regime temporale” che all’epoca fordista opponeva rigidamente il tempo di lavoro diretto, effettuato durante l’orario ufficiale di lavoro, e considerato come il solo tempo produttivo, e gli altri tempi sociali dedicati alla riproduzione della forza lavoro, considerati come improduttivi.
Due tendenze mostrano la portata e la posta in gioco di questa trasformazione.
La prima rinvia alla dinamica che vede la parte del capitale chiamato intangibile (educazione, formazione, salute, R&S) e incorporato per l’essenziale negli uomini (il c.d. capitale umano) superare la parte del capitale materiale nello stock di capitale e rappresentare ormai il fattore principale della crescita. Ora, questo fatto stilizzato significa che le condizioni della riproduzione e della formazione della forza lavoro sono diventate direttamente produttive e che la fonte della ricchezza della nazioni si trova sempre più a monte del sistema delle imprese. In secondo luogo, viene evidenziato un altro fatto sistematicamente omesso dagli economisti dell’OCSE : i settori motori del nuovo capitalismo della conoscenza corrispondono sempre più ai servizi collettivi assicurati storicamente dal Welfare-State. Si tratta di attività dove la dimensione cognitiva del lavoro é dominante e si potrebbe sviluppare potenzialmente un modello di sviluppo alternativo fondato sulla produzione dell’uomo attraverso l’uomo e la centralità di servizi universali forniti al di fuori di un logica di mercato.
La seconda evoluzione concerne il passaggio, in numerose attività produttive, da una divisione taylorista ad una divisione cognitiva del lavoro fondata sulla creatività e la capacità d’apprendimento dei lavoratori tramite lo scambio relazionale di conoscenza e saperi. In questo prospettiva, il tempo di lavoro immediato dedicato alla produzione nell’orario ufficiale di lavoro non é più che una frazione del tempo sociale di produzione. Per la sua stessa natura, il lavoro cognitivo si presenta infatti come la combinazione complessa di un’attività di riflessione, di comunicazione e di produzione di sapere che si svolge tanto a monte quanto al di fuori del lavoro immediato di produzione.
Di conseguenza, i confini tradizionali tra lavoro e non lavoro, si attenuano, e ciò attraverso una dinamica contraddittoria. Da un lato, il tempo libero non si riduce più alla sola funzione catartica di riproduzione del potenziale energetico della forza lavoro Si articola invece su attività di formazione, di autovalorizzazione, di lavoro volontario nelle reti dell’economia sociale e delle comunità di scambio dei saperi che attraversano le differenti attività umane. Queste sono attività nelle quali ogni individuo trasporta il suo sapere da un tempo sociale all’altro, accrescendo il valore d’uso individuale e collettivo della forza lavoro.
Dall’altro, per questa stessa ragione si crea un conflitto e una tensione crescente tra questa tendenza all’autonomia del lavoro e il tentativo del capitale di assoggettare l’insieme dei tempi sociali alla logica eteronoma della valorizzazione del capitale.
Questa tensione contribuisce a spiegare la stessa destabilizzazione dei termini tradizionali dello scambio capitale-lavoro salariato. Nel capitalismo industriale, il salario era la contropartita dell’acquisto da parte del capitale di una frazione di tempo umano ben determinata messa a disposizione dell’impresa. Il capitalista, doveva allora occuparsi delle modalità più efficaci dell’utilizzo di questa frazione di tempo pagato al fine di estrarre dal valore d’uso della forza lavoro la massima quantità di plusvalore. Il taylorismo grazie all’espropriazione dei saperi operai e alla rigida prescrizione dei tempi e delle mansioni fu a suo tempo la soluzione adottata. Nella fabbrica fordista, il tempo effettivo di lavoro, la produttività, il valore e il volume della produzione sembravano perfettamente predeterminati in modo “scientifico”, anche se in realtà la catena di montaggio non avrebbe mai potuto funzionare senza uno scarto importante tra le consegne prescritte e l’attività reale. Il solo vero rischio per il capitale era che questa implicazione paradossale dell’operaio-massa si tramutasse in insorgenza antagonista. Come è avvenuto.
Ma tutto cambia allorché il lavoro, diventando sempre più cognitivo, non puo’ più essere ridotto un semplice dispendio di energia effettuato in un tempo determinato. Il vecchio dilemma si ripropone quindi in nuovi termini: non solo il capitale é diventato nuovamente dipendente dai saperi dei lavoratori, ma deve ottenere una disponibilità e un’implicazione attiva dell’insieme dei saperi e dei tempi di vita. La « prescrizione della soggettività », l’obbligo al risultato, la pressione del cliente insieme alla costrizione pura e semplice legata alla precarietà sono le principali vie trovate dal capitale per tentare di rispondere a questa problema inedito. Le diverse forme di precarizzazione del rapporto salariale sono infatti anche e soprattutto uno strumento per il capitale per imporre e beneficiare gratuitamente di questa subordinazione totale, senza riconoscere e senza pagare il salario corrispondente a questo tempo non integrato e non misurabile nel contratto di lavoro.
Si tratta senza dubbio di una delle spiegazioni chiave della constatazione fatta da Bertinotti in un recente articolo secondo il quale nel capitalismo contemporaneo della globalizzazione e della conoscenza la precarietà sembra stare al lavoro come, nel capitalismo industriale, la parcellizzazione stà al taylorismo.
La stessa logica spiega perché il processo di dequalificazione della forza lavoro sembra aver ormai ceduto il passo a un massiccio fenomeno di “déclassement” che colpisce specialmente le donne e i giovani diplomati, cioè una svalorizzazione delle condizioni di remunerazione e di impiego rispetto alle competenze effettivamente utilizzate nello svolgimento della propria attività lavorativa
In conclusione, la proposta di RSG poggia su un riesame del concetto di lavoro produttivo e dunque della questione del salario, condotta da un duplice punto di vista.
Il primo rinvia al concetto di lavoro produttivo concepito secondo la tradizione dominante in seno all’economia politica come il lavoro che genera un profitto.
Si tratta qui della constatazione secondo la quale siamo oggi di fronte a un’estensione importante dei tempi di lavoro non retribuiti che, al di là della giornata ufficiale di lavoro, partecipano alla formazione del valore captato dalle imprese.
Da questo punto di vista il RSG, in quanto salario sociale, corrisponderebbe alla remunerazione collettiva di una parte di questa attività creatrice di valore che si effettua sull’insieme dei tempi sociali dando luogo ad un enorma massa di lavoro non certificata e non retribuita.
Il secondo punto di vista rinvia invece al concetto di lavoro produttivo concepito come il lavoro libero produttore di valori d’uso, fonte di una ricchezza che sfugge alla logica mercantile e del lavoro subordinato. Si tratta insomma di affermare, contro il pensiero unico dell’economia politica, che il lavoro può essere improduttivo di capitale ma produttivo di ricchezze non mercantili e dar quindi luogo ad un reddito.
Bisogna sottolineare il rapporto ambivalente, al tempo stesso d’antagonismo e di complementarità, che queste due forme di lavoro produttivo intrattengono nel capitalismo cognitivo. L’espansione del lavoro libero va infatti di pari passo con la sua subordinazione al lavoro che produce plusvalore in ragione delle tendenze stesse che conducono a uno sgretolamento delle frontiere tradizionali tra lavoro e non lavoro, sfera della produzione e sfera del tempo libero.
La questione posta dal RSG non é allora solo quella del riconoscimento e della lotta contro questa estensione dello sfruttamento, ma anche e soprattutto quella dell’emancipazione del lavoro dalla sfera della produzione di plusvalore. A questo riguardo, per riprendere un espressione di Gorz, “solo il carattere incondizionato del reddito potrà preservare la piena autonomia delle attività che non possono trovare tutto il loro senso che se compiute per se stesse” e favorire in questo modo la transizione verso un modello non produttivista, fondato sulla preminenza di forme di cooperazione non mercantili e capaci di liberare la società del general intellect dalla logica parassitaria del capitalismo cognitivo.
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