Il Manifesto 24 marzo 2007Dominio, conflitto, diritto, democrazia. Un percorso di lettura su
alcune parole chiave del pensiero politico a partire dall’ultimo
numero della rivista «Quaderni materialisti»
La proposta di sciogliere il nodo paralizzante del rapporto di causa
ed effetto tra «sedizione» e legge attraverso la produzione di nuove
istituzioni
Questo numero spinoziano di «Quaderni materialisti» è dedicato a
François Zourabichvili, giovane formidabile studioso di Spinoza, da
non molto tragicamente scomparso: il suo L’enigma della «moltitudine
libera» è l’articolo che conclude la raccolta di testi e saggi,
riprendendo la tematizzazione iniziale e portando a termine (si fa per
dire) la ricerca.
Ora, il fascicolo contiene una serie d’interventi (Sedizione e
modernità di Filippo Del Lucchese; Sul principio di obbligazione di
Augusto Illuminati; E’ legittima la resistenza allo Stato? di Pierre-
François Moreau; Memoria, caso e conflitto, Machiavelli nel TTP di
Vittorio Morfino; Vincoli di Francesco Piro; L’enigma della
«moltitudine libera» di François Zourabichvili) che intendono
«misurare la forza d’impatto dell’ontologia spinoziana sulla
concettualità tradizionale della politica. Diritto di resistenza,
libertà politica, sedizione, obbligazioni o vincoli e loro
legittimazione razionale sono ovvi termini-chiave del pensiero
politico moderno, così come lo è Machiavelli». Si tratterà di
considerarli nel corso storico che va da Machiavelli a Spinoza,
sottraendo definitivamente questi concetti alla problematica del
giusnaturalismo moderno fra Thomas Hobbes e Jean-Jacques Rousseau.
Il dominio del diritto
Comincia Filippo Del Lucchese. «Qui mi soffermerò sul pensiero di
Machiavelli e di Spinoza – scrive all’inizio del suo saggio – poiché
rappresentano nella prima età moderna una vera e propria anomalia.
Essi costruiscono un pensiero teorico del conflitto – una vera e
propria linea politica della seditio – che fa tremare le fondamenta su
cui si reggono i dogmi della politica moderna. Questa, infatti, si
rappresenta come un pensiero dell’ordine e della neutralizzazione del
conflitto… (di contro) il rapporto fra diritto e conflitto, per
Machiavelli come per Spinoza ha un ritmo complesso… un rapporto
ricorsivo… fuori da ogni schema dialettico di composizione e di
sintesi dei due termini». Procede ancora Del Lucchese: «è stato
Foucault che in epoca contemporanea ha espresso più di ogni altro il
carattere conflittuale della storia e il suo significato anfibio: da
un lato come espressione dei conflitti, delle lotte, delle rivolte…
dall’altro come strumento di lotta teorica attraverso l’ordine
politico moderno… La guerra viene così, nella filosofia politica
moderna, a ricoprire interamente il diritto». Diritto è il comando di
chi ha vinto la guerra: ma nessuno vince mai la guerra. Di
conseguenza, la storia si presenta come garbuglio e scontro, come
dualismo piuttosto che processo unitario e nel rapporto fra
Machiavelli e Spinoza si definisce in maniera paradigmatica l’unica
divisa che può permetterci di ancorare un futuro progetto
rivoluzionario al passato ed al presente di lotte: seditio sive jus
(sedizione è anche diritto).
La mediazione della legge
Come si è potuto dimenticare tutto ciò? Come si è potuto consegnare il
politico ad una supposta «autonomia», e sostituire Machiavelli con
Carl Schmitt? Come si è potuto perdere il senso della duplicità e
dell’ambiguità che caratterizza il rapporto fra potenze ontologiche e
istituzioni politiche, per meglio dire, fra forze produttive e
rapporti di produzione? Ecco, dunque, quel che conduce la riflessione
lontano dall’«autonomia del politico» e dalle tradizioni
rappresentative del moderno stato costituzionale: il tentativo di
rappresentare la forza dinamica del politico democratico, la seditio,
attraverso la sua limitazione contrattuale e/o costituzionale viene
meno. Il loro limite, dunque, non è nella natura della cosa, ma nella
sua distorsione.
Proseguendo su questo terreno Del Lucchese, come d’altra parte Bove ha
già fatto a proposito di Affermazione e resistenza in Spinoza, ci
mostra quanto la strategia del conatus non si basi su una priorità
ontologica ma debba essere letta come un rapporto interno alla potenza
della moltitudine. «Questo movimento fa emergere la razionalità
immanente delle istituzioni: “punto di vista onto-genetico del diritto
di natura e non della legge, della potenza e non del potere”… La
legge stessa è la “mediazione necessaria della potenza della
moltitudine nella sua affermazione, così come il sintomo del suo stato
presente”». Vale a dire che il processo istituzionale nasce
dall’interno della lotta. (Accetto qui, di buon grado, la critica che
a questo proposito mi è direttamente rivolta e che consiste
nell’evidenziare come nella mia trattazione del pensiero spinozista
potesse equivocamente presentarsi una certa anteriorità della potenza
sul potere, del potere costituente sul formalismo della legge). Ad
esempio, è dallo sviluppo dell’indignazione che si propone la
sedizione; ma è dallo sviluppo della sedizione che si apre
l’espansione rivoluzionaria della libertà: qui è la base che permette
d’opporre all’Impero di Bush la potenza di sviluppare una vera
democrazia rivoluzionaria delle lotte.
Potenza della sedizione
L’istituzione di questa democrazia non riposa da nessuna parte che non
sia all’interno questo stesso sviluppo. Conclude Del Lucchese: «la
sedizione deve essere pensata come interna e coesistente al diritto ed
allo stato e può per questo essere concepita al di fuori di ogni
meccanismo dialettico… Libera multitudo come libera seditio. Questo
il carattere mostruoso della sfida che Machiavelli e Spinoza hanno
lanciato, tracciando confini diversi per segnare il campo semantico
della politica. E si tratta di un vero e proprio campo di battaglia».
Sorge il sospetto, a questo punto, che quella serie di concetti che
nel moderno, fra Machiavelli e Spinoza, viene rovesciata – dal
contratto alla potenza, dalla seditio alla democrazia – venga oggi,
attraverso un esempio teologico-politico, reinserita nel dibattito: il
vecchio «moderno» (contrattuale, pattizio) viene, oggi, ripresentato
come katechon, cioè come trattenimento, sussunzione del conflitto.
Ora, mi sembra che gli interventi che, in questo numero dei Quaderni
materialisti seguono quello di Del Lucchese fin qui considerato,
s’articolino tutti attorno ad una parola d’ordine: basta con il
katechon! Dicono, infatti: se si sta con il katechon non si sta dentro
il conflitto ma ci si riposa sul lato della sconfitta e della sua
interiorizzazione.
Tra obbedienza e resistenza
Ora, nel suo saggio Sul principio di obbligazione, Augusto Illuminati
vi ritorna su con molta intelligenza, muovendosi tra l’Heidegger che
blocca ontologicamente lo sviluppo dell’essere e quel recente
rinnovamento dell’apologetica paolina che sembra auspicare il
riapparire della trascendenza sul limite dell’essere. («La contingenza
è vissuta come angoscia e risolta in obbedienza – non avvertiamo
partecipazione del movimento che risolve l’essere-per-la-morte,
divenuto consapevole nel grande ascolto heideggeriano dell’Essere? Non
è forse l’ascolto il vertice dell’obbedienza?»). «Autonomia del
politico»: che cosa significava questo se non autolimitazione delle
lotte, (nel passato), se non (nel presente) riproposizione della
tematica di «ciò che non può essere oltrepassato», di ciò che contiene
il suo limite all’interno (male radicale? accumulazione originaria
insuperabile?) – che cosa significa questo se non la dimissione d’ogni
potenza di trasformazione? Di contro, valgono l’astuzia machiavellica
e la cupiditas spinoziana.
Il katechon non può essere superato se dall’interno dell’indignazione,
così come dall’interno della potenza, non scaturisce l’istituzione.
Nel suo saggio E’ legittima la resistenza allo Stato?, Pierre-François
Moreau, mentre da un lato sottolinea quanto l’indignazione risulti
fondamentale nello sviluppo di ogni istanza critica, tanto insiste sul
fatto che da sola l’indignazione non crea un nuovo Stato: pone,
tuttavia, la base dello sviluppo dell’istituzione. Anche Vittorio
Morfino (Memoria, cosa e conflitto. Machiavelli nel Trattato teologico
politico) insiste su questo tema, dal punto di vista questa volta non
dell’indignazione spinozista ma del «patto» così come espresso in
Machiavelli.
Anche in questo caso ciò che è fondamentale è la costruzione
dell’istituzione: è, come Francesco Piro insiste nel suo saggio
Vincoli, la capacità di sottrarre la politica alla teologia, la
sedizione e la lotta alla mediazione ed all’ordine, capacità di
svolgere la sedizione in lotta.
La tensione al comune
È così che l’unica «autonomia del politico» è quella che è prodotta
dalla «moltitudine libera». François Zourabichvili squarcia l’enigma
della moltitudine libera. Non c’è moltitudine nello Stato di natura.
Non c’è moltitudine prima dello Stato civile. In terzo luogo, la
moltitudine non è una sorta di concetto intermedio tra gli individui e
la comunità istituita. «Per quale ragione allora la moltitudine non è
una semplice chimera concettuale? In virtù della tensione naturale
degli individui verso la comunità (cioè, del loro comune orrore per la
solitudine). Se ne conosce la logica: è quella delle nozioni comuni.
La consistenza del concetto di moltitudine si trova allora nella
tensione di un desiderio comune. Ed è su questo desiderio comune che
l’istituzione si fonda».
C’è, dunque, solo un fare-moltitudine, che è anche un
fare-istituzione, poiché il fare è la stessa realtà della moltitudine.
Di qui si coglie bene che non v’è moltitudine che per la libertà,
dentro la libertà, che non vi è, dunque, katechon da nessuna parte e
che le condizioni storiche di una moltitudine libera stanno nel fatto
che la moltitudine si costruisce continuamente producendo esperienza
comune ed istituzione. Non vi è «Stato nello Stato» – diceva Spinoza:
ma potremmo aggiungere, «se non per la moltitudine libera». E’ questa
la via dell’esodo che la moltitudine, conquistando libertà e
costruendo istituzioni, percorre sempre.