Una delle caratteristiche del nuovo capitalismo è la perdita di importanza del capitale fisso, della macchina nella sua forma fisica, quale fattore di produzione di ricchezza.
Las materializzazione del capitale fisso e dei prodotti-servizio ha quale suo corrispettivo concreto la “messa al lavoro” delle facoltà umane quali la capacità linguistico-comunicativa e relazionale, le competenze e le conoscenze acquisite in ambito lavorativo e, soprattutto, quelle accumulate in ambito extra-lavorativo (saperi, sentimenti, versatilità, reattività, ecc.), insomma l’insieme delle facoltà umane che, interagendo con sistemi produttivi automatizzati e informatizzati, sono direttamente produttive di valore aggiunto.
La dematerializzazione del capitale fisso e il trasferimento delle sue funzioni produttive e organizzative nel corpo vivo della forza-lavoro, è all’origine di uno dei paradossi del nuovo capitalismo, ossia la contraddizione tra l’aumento d’importanza del lavoro cognitivo, produttivo di conoscenza, quale leva della ricchezza e, contemporaneamente, la sua svalorizzazione in termini salariali e occupazionali.
Le difficoltà in cui ci si imbatte in tutte le analisi delle tendenze del mercato del lavoro confermano indirettamente che il modello emergente nei paesi economicamente sviluppati è di tipo antropogenetico, un modello cioè di “produzione dell’uomo attraverso l’uomo” in cui la possibilità della crescita endogena e cumulativa è data soprattutto dallo sviluppo del settore educativo (investimento nel capitale umano), del settore della sanità (evoluzione demografica, biotecnologie) e di quello della cultura (innovazione, comunicazione e creatività). Un modello in cui i fattori di crescita sono di fatto imputabili direttamente all’attività umana, alla sua capacità comunicativa, relazionale, innovativa e creativa. E’ la capacità di innovazione, di “produzione di forme di vita”, e quindi di creazione di valore aggiunto, che definisce la natura dell’attività umana, non il fatto che appartenga a questo o quel settore occupazionale.
Nel modello della “produzione dell’uomo attraverso l’uomo” il capitale fisso, se scompare nella sua forma materiale e fissa, riappare comunque nella forma mobile e fluida del vivente.
Nella nostra ipotesi, il corpo della forza-lavoro, oltre a contenere la facoltà di lavoro, funge anche da contenitore delle funzioni tipiche del capitale fisso, dei mezzi di produzione in quanto sedimentazione di saperi codificati, conoscenze storicamente acquisite, grammatiche produttive, esperienze, insomma lavoro passato.
C + V
L’ipotesi di lavoro è la seguente: nel nuovo capitalismo, nel modello antropogenetico emergente che lo contraddistingue, il vivente contiene in sé entrambe le funzioni di capitale fisso e di capitale variabile, cioè di materiale e strumenti di lavoro passato e di lavoro vivo presente. In altre parole, la forza-lavoro si esprime come la somma di capitale variabile (V) e di capitale costante (C, più precisamente la parte fissa del capitale costante). La produzione di merci e servizi, sia quella ripetitiva sia quella innovativa, è il risultato dell’interazione tra forma di vita consolidata, in cui si condensano regole, codici, paradigmi, convinzioni ereditate dal contesto in cui si sono formate, e attività produttiva in cui queste regole, codici, convinzioni, paradigmi vengono applicati con lo scopo di creare valore da un “materiale” altrimenti morto.
Per cogliere la distinzione, ma anche il rapporto sociale tra capitale costante e capitale variabile, è utile far riferimento all’attività linguistica, anche perché nel modello antropogenetico il linguaggio racchiude in sé le caratteristiche fondamentali dell’attività umana, ne è per così dire la sostanza. Come scriveva Rossi-Landi: “Costanza e variazione, entrambe relative, si colgono benissimo considerando il permanere della lingua di generazione in generazione. Se togliamo di mezzo il capitale variabile, ci rimangono solo materiali, strumenti e denaro, che senza il lavoro sono cosa morta. Prima di essere morta, una lingua deve essere stata viva; è appunto alla nozione di lingua morta, che si giunge quando si toglie di mezzo il capitale variabile. Per contro, l’aggiungersi del capitale variabile al capitale costante appare con chiarezza quando si considera il caso di un linguista che riesce a interpretare una lingua morta: egli è come chi entri in una fabbrica abbandonata e a poco a poco rimetta in opera le macchine di cui ha compreso il funzionamento, riutilizzi i materiali che erano rimasti lì ad attendere”. (pp. 243-4).
Sotto questo profilo risulta evidente l’utilità della teoria critica di Marx, la sua distinzione tra lavoro vivo e lavoro morto, tra capitale variabile e capitale fisso costante. Ma il Marx del modello antropogenetico va in qualche modo rivisitato. E’ infatti noto che, nei Grundrisse, Marx, quando parla del sapere scientifico accumulato nelle forze produttive generali (ilgeneral intellect), lo vede materializzato, fissato nelle macchine separate dal lavoratore. In virtù della separazione tra lavoratore e strumenti di lavoro, l’attività del lavoratore “si limita a mediare il lavoro della macchina”, è un’attività “determinata e regolata in ogni direzione dal moto della macchina”. Quanto più è complessa e regolata la struttura del capitale costante, tanto più il lavoratore viene atomizzato, ridotto alla condizione di individuo che lavora senza libertà dentro una macchina immensa. Tanto più, aggiunge Marx, il lavoro si rivela come “base miserevole” del valore.
Si pu« quindi affermare che la separazione marxiana tra il lavoratore e le macchine di proprietà del capitalista è all’origine dello sfruttamento e dell’alienazione tipici del regime d’accumulazione fordista. Ma è precisamente la crisi del modello fordista e la ridefinizione del rapporto tra capitale e lavoro che ne è conseguita, che impone da una parte, di mantenere la separazione-distinzione tra capitale fisso e capitale variabile e, dall’altra, di vedere queste due forme del capitale racchiuse nel vivente, nel corpo vivo della forza-lavoro.
Quando si parla di “investimento nel capitale umano” si intende implicitamente che è sulla forza-lavoro come insieme di competenze passate e di lavoro vivo presente che occorre investire per alimentare nel tempo la crescita economica. Si tratta di un vero e proprio investimento, dicosto di utilizzazione della forza-lavoro come anello tra presente e futuro, un costo che comprende il salario come prezzo della forza-lavoro (che permette la riproduzione della capacità lavorativa dell’operaio), ma che comprende anche l’investimento nel corpo del lavoratore come ricettacolo del sapere, delle competenze sociali presenti della società. L’uso capitalistico della forza-lavoro non si risolve solo nella sua messa al lavoro, nel passaggio cioè dalla capacità di lavoro alla sua attualità (lavoro in actu), ma anche nella utilizzazione dei saperi e delle conoscenze che vengono “consumate” lungo tutto il processo lavorativo.
Il lavoro vivo, presente, del lavoratore è una attività di trasformazione continua del materiale umano, frutto di lavoro passato, con cui e su cui si lavora. Questa attività consuma o, meglio, conserva consumando l’insieme dei saperi e delle conoscenze socialmente date in un determinato periodo. E’ proprio per questo consumo riproduttivo, per questo riutilizzo nel tempo del capitale fisso socialmente determinato, che l’investimento nel capitale umano dovrebbe includere l’ammortamento. L’ammortamento assicura la riproduzione delle “forze produttive generali del cervello sociale”, del materiale umano accumulato che, senza l’attività del lavoro vivo, resterebbe “lingua morta”.
Non si pu« certo dire che nel nuovo capitalismo il valore della forza-lavoro sia considerato in modo tale da includere i costi d’ammortamento impliciti nell’uso produttivo del “cervello sociale”. Di fatto, solo il salario (V), oltretutto come variabile d’aggiustamento, è preso in considerazione, sia come remunerazione puntuale dell’attività lavorativa (senza includere, quindi, i costi riproduttivi della forza-lavoro da sostenere nei periodi di inattività forzata), sia come variabile dipendente dalle oscillazioni del mercato, e del mercato finanziario in particolare. Ad esempio, l’investimento nella formazione sull’arco dell’intera vita attiva della forza-lavoro, l’investimento che assicura la riproduzione del capitale fisso umano, è addirittura ridotto in conseguenza dello smantellamento dello Stato sociale e dell’aumento dei costi dell’educazione. Il risultato paradossale di questo disinvestimento pubblico è l’aumento d’importanza strategica del lavoro cognitivo sociale (e quindi della formazione) e il concomitante peggioramento delle condizioni di vita degli stessi knowledge workers.
Se si parla della formazione come investimento è anche per evidenziare il fatto che, dal punto di vista della contabilità nazionale, la formazione è a tutt’oggi una spesa di gestione corrente, un’uscita cioè che dipende dall’andamento annuale del reddito fiscale, a sua volta fortemente condizionato dall’ammortamento degli investimenti nel genio civile (come le “grandi opere”). Si crea in tal modo uno squilibrio tra politiche d’investimento ereditate dal fordismo, in cui le spese in infrastrutture (nell’hardware pubblico) giocavano un ruolo strategico di primaria importanza, e politiche di spesa per la formazione. La privatizzazione dei cicli formativi sono il tentativo di risolvere questo squilibrio, ma il loro effetto è solo quello di aggravare l’altro squilibrio, altrettanto fondamentale, quello tra la natura sociale del capitale umano e l’esclusione di una parte crescente di forza-lavoro dai processi di formazione.
Le derive della finanziarizzazione
Per le imprese che prendono il capitale fisico di cui hanno bisogno attraverso forme diverse di contratti di noleggio, i costi relativi all’uso di tali beni capitali figurano come spese d’esercizio, fiscalmente deducibili, alla stessa stregua di un costo dell’attività. Non solo le imprese si liberano dei costi di ammortamento derivanti dall’investimento in macchinari, ma in tal modo aumentano la liquidità a loro disposizione, riducono i rischi di credito per i loro finanziatori e, non da ultimo, si mettono nella posizione di mantenere il controllo della società.
Una delle conseguenze del disinvestimento nel capitale fisico è la finanziarizzazione dell’economia, ossia l’uso della liquidità liberata dai processi produttivi per aumentare il valore borsistico del capitale. Se all’aumento della liquidità, conseguente alla riduzione degli investimenti in capitale fisso, si aggiunge l’aumento dell’indebitamento delle imprese verso il sistema bancario, si capisce come la finanziarizzazione dell’economia (pagamento di dividendi, interessi, Fusioni&Acquisizioni, buyback di azioni già emesse) sia stato uno straordinario trasferimento di ricchezza alla classe degli investitori azionisti, nonché ai manager che hanno gestito i processi di finanziarizzazione. Da oltre vent’anni, anche dopo la crisi borsistica del 2000, si assiste ad un aumento regolare dei dividendi completamente separato dai movimenti che minano i profitti.
Nel capitalismo manageriale azionario, la fissazione di soglie elevate di rendimento dei titoli finanziari per ridurre il rischio degli azionisti (per garantirne la liquidità, oltre che l’aumento) va di pari passo con l’aumento del rischio sopportato dai salariati. Lo sviluppo dell’individualizzazione delle remunerazioni per i quadri e per i salariati (le stock options), l’aumento della flessibilità del lavoro, il ricorso al lavoro atipico e l’outsourcing, permettono di far fluttuare la massa salariale secondo i bisogni industriali.
Il trasferimento del rischio dagli azionisti ai salariati dimostra come nei processi di finanziarizzazione il capitale intangibile, quello che funge da capitale fisso immateriale, sia contabilizzato esclusivamente come capitale variabile. Il che, naturalmente, rappresenta un risparmio per il capitale, dato che permette di utilizzare gratuitamente le competenze, i saperi e le conoscenze depositate nel corpo della forza-lavoro. Si tratta per« di un falso risparmio, perlomeno nel medio e lungo periodo, perché per fissare il capitale cognitivo della forza-lavoro, per trattenere il corpo del lavoratore e farlo funzionare da capitale fisso cognitivo, il capitale è costretto, in virtù della stessa logica salariale, a portare la finanziarizzazione fin oltre i suoi stessi limiti, cioè fino alla crisi. Perci«, se per trattenere i lavoratori cognitivi occorre agganciare una parte importante del loro salario all’andamento dei titoli azionari dell’impresa (è il caso delle stock options, ma anche di tutti i sistemi remunerativi meritocratici introdotti in questi anni), ne consegue che la distorsione tra valorizzazione del capitale e finanziarizzazione viene tirata oltre la capacità di governo del processo stesso. Si entra cioè in un processo autoreferenziale in cui il valore borsistico dell’impresa quotata prende il sopravvento sul valore effettivamente prodotto.
La crisi è certamente la modalità specifica con la quale gli eccessi finanziari della fase espansiva del ciclo vengono eliminati, ma la stessa crisi è anche il momento in cui una parte importante del capitale umano viene dissipata, rottamata, come accade alle macchine portate al macero, e come indirettamente dimostrano gli aumenti dei costi della salute psico-fisica dei lavoratori. La finanziarizzazione maschera l’esistenza di un eccesso, uno scarto tra “sistema di valori”, sentimenti, pensieri ed esperienze sedimentati nel corpo della forza-lavoro, e uso capitalistico delle capacità lavorative.
L’ammortamento come contraddizione
Abbiamo detto che la teoria critica di Marx è utile perché in essa lavoro vivo e lavoro passato, capitale variabile e capitale costante, sono distinti, ci« che peraltro permette a Marx di definire il capitale, a differenza degli economisti classici e dei marginalisti, come rapporto sociale. Senonché, quando si voglia utilizzare la distinzione marxiana tra lavoro vivo e lavoro passato (o morto) per capire la logica che sottende l’ammortamento del capitale fisso, ci si imbatte in una vera e propria contraddizione: in Marx, l’ammortamento del capitale fisso non è spiegabile sulla base della teoria del valore-lavoro.
Ci« che rende contraddittoria la spiegazione marxiana dell’ammortamento è l’introduzione della variabile tempo, il fatto cioè che il processo di produzione non solo è circolare, ma è anche determinato da una sequenza di atti successivi che definiscono in termini temporali la catena del valore. Il tempo complessivo di produzione che “tiene assieme” circolarmente produzione e consumo di merci, è il tempo all’interno del quale il valore del capitale fisso consumato durante il processo di valorizzazione non pu« essere trasferito, e quindi neanche recuperato monetariamente, sui prezzi di vendita delle merci prodotte.
Nelle Teorie del plusvalore, Marx dimostra di essere perfettamente consapevole del problema: “chi lavora per ricostruire l’equivalente del capitale costante già impiegato nella produzione?” La questione è duplice. In primo luogo, il lavoro vivo produce salario e profitto che, assieme, confluiscono nel valore di scambio delle merci prodotte. Ma il lavoro passato, il lavoro necessario per produrre le macchine acquistate dal capitalista, non pu« essere riprodotto o ammortizzato dal lavoro vivo. “Tutti gli elementi della tela si risolvono così in una somma di quantità di lavoro che è uguale alla somma del nuovo lavoro aggiunto, ma non è uguale alla somma di tutto il lavoro contenuto nel capitale costante e perpetuato mediante la riproduzione” (I, p. 214). Basterebbe questo paradosso quantitativo per concludere che la differenza tra lavoro vivo e lavoro morto è un’aporia irrisolvibile. Il lavoro vivo non pu« in alcun modo creare quella parte di valore del capitale fisso che viene consumata nel processo di produzione (se fosse possibile si arriverebbe alla conclusione che il capitale costante viene prodotto due volte!). Il capitale costante, insomma, “E’ una parte del prodotto annuo del lavoro, ma non del prodotto del lavoro annuo (più esattamente: una parte del prodotto del lavoro annuo più una parte del prodotto del lavoro preesistente” (I, p. 220).
In secondo luogo, l’ammortamento presuppone la costituzione di una somma di denaro tale da permettere al capitalista di acquistare una nuova macchina dopo aver utilizzato ripetutamente il capitale investito. Questa somma di denaro si ottiene vendendo le merci prodotte ad un prezzo tale da coprire la somma di salario e profitto e capitale costante consumato. “Ma ecco la difficoltà. A chi le vende? Nel denaro di chi lo converte?(Teorie, I, p. 182). Non solo il valore del capitale costante consumato nel corso della produzione non pu« essere trasferito nel valore di scambio finale delle merci prodotte, ma (anche se lo fosse) i redditi distribuiti nel corso della produzione (salario e profitto) non bastano a convertire il prodotto totale in denaro. Il salario pu« solo riprodurre il valore della forza-lavoro, e se il capitalista volesse utilizzare il suo profitto per ammortizzare il capitale costante cesserebbe semplicemente la sua funzione di capitalista.
Insomma, all’interno del circuito economico, la distinzione marxiana tra lavoro vivo e lavoro morto (preesistente) si rivela un vero rompicapo per chi volesse interpretare logicamente la teoria del valore-lavoro. La soluzione di tipo ricardiano consiste ad eliminare la distinzione fra lavoro vivo e lavoro morto. Ma questa distinzione è importante per due ragioni. La prima è che, in virtù di questa distinzione, è possibile studiare le crisi del capitalismo storico, la seconda, perché la distinzione tra lavoro vivo e lavoro passato permette di affrontare la questione della natura umana della forza-lavoro. “Dunque – scrive Marx nel primo Libro del Capitale (1970, p. 234) – conservare valore aggiungendo valore è una dote di natura della forza-lavoro in atto, del lavoro vivente; dote di natura che non costa niente all’operaio, ma frutta molto al capitalista: gli frutta la conservazione del valore capitale esistente. Finché gli affari vanno bene, il capitalista è troppo sprofondato nel far plusvalore per vedere questo dono gratuito del lavoro. Ma le interruzioni violente del processo lavorativo, le crisi, glie lo fanno notare in maniera tangibile” (p. 240).
Il fatto che il rompicapo dell’ammortamento è spiegabile sulla base della “dote di natura” della forza-lavoro, è l’aspetto più interessante di tutta la faccenda. La “dote di natura” di cui parla Marx a proposito della forza-lavoro, la sua capacità di “conservare valore aggiungendo valore”, non è altro che l’eccedenza della natura umana rispetto ai modi di produzione storicamente determinati del capitale. Si tratta di una eccedenza di valore perché non è riducibile al rapporto materiale tra capitale e lavoro, e si tratta altresì di un’eccedenza come “dote di natura” perché è la parte naturale, per così dire invariabile, del vivente che attraversa la storia umana. Diciamo “invariabile” nel senso che, mentre i modi di produzione variano nel tempo, e variano a ritmi sempre più serrati passando da una crisi all’altra, questa “dote di natura” dell’uomo è la forza vitale, soggettiva, che si conserva malgrado l’erosione, malgrado il consumo riproduttivo che è costretta a subire lavorando per il capitale.
Così come “Il macchinario non perde il suo valore d’uso appena cessa di essere capitale” (Grundrisse, p. 710-11), nel modello antropogenetico il corpo della forza-lavoro come cervello sociale, come corporeità del sapere e delle abilità, non perde il suo valore d’uso anche quando cessa di lavorare per il capitale. Con una differenza non da poco, comunque, dato che quando la macchina è inoperosa è sì lavoro passato, ma è anche morto, mentre il corpo-macchina della forza-lavoro, anch’esso sedimentazione di lavoro passato, è sempre vivo. In questo senso preciso la forza-lavoro eccede la sua stessa messa al lavoro nel processo direttamente produttivo.
Un reddito per la vita
Su una cosa è lecito dissentire da Marx, ed è quando afferma che la dote di natura “non costa niente all’operaio”. Costa eccome, come hanno dimostrato le lotte delle donne per il riconoscimento economico del lavoro riproduttivo. Il lavoro vivo riproduttivo, nella misura in cui permette di ridurre il costo della forza-lavoro, cioè il salario monetario necessario per vivere, permette di conseguenza di aumentare il profitto (monetario) del capitalista.
La lotta delle donne per il riconoscimento monetario del lavoro vivo riproduttivo è particolarmente interessante perché, se da una parte svela l’esistenza materiale di quella quantità di lavoro vivo che Marx cerca invano all’interno del circuito D-M-D’ per spiegare l’ammortamento del capitale fisso, dall’altra parte introduce la possibilità di un reddito d’esistenza indipendente dal circuito del capitale. Le lotte per il Welfare State che hanno attraversato l’affermazione storica del regime fordista sono una testimonianza del progressivo riconoscimento politico di questo costo biologico altrimenti occultato dietro la “dote di natura” della forza-lavoro. Con la creazione di una domanda aggiuntiva rispetto a quella creata dal capitale (attraverso, e non a caso, il meccanismo del deficit spending), il Welfare State keynesiano ha di fatto risposto alla domanda che Marx si pone ragionando attorno alla questione dell’ammortamento del capitale fisso: “A chi le vende? Nel denaro di chi lo converte?” Le vende ad una classe operaia di cui lo Stato è stato costretto a riconoscere la dimensione biologica oltre quella meramente produttiva.
Il Welfare State è stato il primo esperimento storico di erogazione di un reddito d’esistenza sociale, o bioreddito che, riconoscendo la forza-lavoro non solo come costo per il capitale, ma anche come investimento sociale, ha di fatto assicurato la continuità del circuito D-M-D’. Nel regime fordista la divisione sessuale del lavoro ha assicurato il movimento espansivo del capitale perché ha permesso al reddito d’esistenza di fungere da variabile dipendente del capitale. In altre parole, il bioreddito, se da una parte ha assicurato l’ammortamento del capitale fisso, dall’altra ha riprodotto la separazione tra capitale e lavoro e, con essa, la divisione sessuale del lavoro. Non è certo un caso se la crisi del modello fordista coincide storicamente con la rivolta delle donne contro la divisione sessuale del lavoro.
Nel modello antropogenetico emergente, la “produzione dell’uomo attraverso l’uomo” ripropone la questione dell’ammortamento nei termini della conservazione del valore della forza-lavoro come dote di natura in sé e per sé. L’investimento nella formazione, nella salute, nella cultura, nell’ambiente, ossia nelle parti costitutive del capitale fisso umano, deve accompagnare la riproduzione della forza-lavoro lungo tutto l’arco della vita. Rispetto al bioreddito di tipo fordista-keynesiano, in cui l’investimento nel vivente ha svolto un ruolo determinante nella soluzione del problema dell’ammortamento del capitale fisso, nel modello antropogenetico il bioreddito è un investimento nella autonomia del vivente dal modo di produzione storicamente determinato.