02. Compléments bibliographiques

Tempo storico e semantica politica nella critica postcoloniale

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…while memory holds a seat

In this distracted globe

(…finché avrà un seggio la memoria

in questo globo impazzito)

W. Shakespeare, Hamlet, I, 5.

1. L’omogeneità dello spazio, del tempo e del valore, ha scritto di recente il filosofo tedesco Peter Sloterdijk, ha a lungo rappresentato lo «stile logico» della Weltgeschichte, la grande narrazione che a partire dal Settecento ha accompagnato e scandito il processo materiale di unificazione del pianeta[[P. Sloterdjik, Im Weltinnenraum des Kapitals, Frankfurt a.M, Suhrkamp, 2005, p. 28.. Considerata da questo punto di vista, la condizione contemporanea è decisamente spaesante. Da una parte quella omogeneità pare trionfare, farsi mondoappunto, nel contesto dei processi di «globalizzazione». Dall’altra, proprio per la forma che quei processi hanno assunto, il nostro sguardo tende piuttosto a fissarsi, per citare ancora Sloterdijk, sulle «crepe, le turbolenze, le irregolarità» che recalcitrano a ogni «semplificazione geometrica»[[Id., L’ultima sfera. Breve storia filosofica della globalizzazione (2001), trad. it. Roma, Carocci, 2002, 15. Al lavoro di Sloterdjik si può utilmente accostare la «critica della ragione cartografica» proposta da F. Farinelli, Geografia. Un’introduzione ai modelli del mondo, Torino, Einaudi, 2003, nonché Id., Il porto, la tavola e l’onda. Per la critica della ragione cartografica, in «Studi culturali», II (2005), 1, pp. 111-120..

È precisamente nella tensione tra queste due polarità della nostra esperienza contemporanea che si situa il contributo che i cosiddetti studi postcoloniali, ormai ampiamente noti anche in Italia, possono offrire alla stessa storiografia[[Si vedano ad esempio, per una prima introduzione, i due lavori di R.J.C. Young, Introduzione al postcolonialismo (2003), trad. it. Roma, Meltemi, 2005 e M. Mellino, La critica postcoloniale. Decolonizzazione, postcolonialismo e cosmopolitismo nei postcolonial studies, Roma Meltemi, 2005. Il libro di Mellino è particolarmente utile per la ricostruzione della complessa ed eterogenea genealogia degli studi postcoloniali.. Nel contesto del fruttuoso lavoro di ridefinizione delle mappe disciplinari che negli ultimi anni, a partire dalla consapevolezza della crisi delle storiografie «nazionali», si è in particolare prodotto attorno alla categoria di world history[[Cfr. G. Gozzini, Dalla “Weltgeschichte” alla “world history”: percorsi storiografici attorno al concetto di globale, in «Contemporanea», VII (2004), 1, pp. 3-38. Per un confronto tra world history e studi postcoloniali, cfr. l’introduzione dei curatori (Europa in einer postkolonialen Welt) a S. Conrad – S. Randeria (Hg.), Jenseits des Eurozentrismus. Postkoloniale Perspektiven in den Geschichts- und Kulturwissenschaften, unter Mitarbeit von B. Sutterlüty, Frankfurt a.M. – New York, Campus,. 2002, pp. 9-49., la critica postcoloniale consente di operare una mossa che potremmo definire «kantiana», investendo direttamente – e rinnovando in profondità – le modalità di rappresentazione del tempo e dello spazio che articolano la narrazione storica. In questo intervento mi limito a presentare, in forma di esemplificazione stilizzata, alcune considerazioni preliminari al riguardo. Quel che è in gioco, in fondo, è la nostra stessa comprensione della modernità, mentre la problematizzazione della dimensione soggettiva dell’esperienza storica, che costituisce uno dei centri di gravitazione degli studi postcoloniali, chiama in causa questioni di rilievo a mio giudizio cruciale per un pensiero critico del presente.

2. Dalla world history torniamo alla Weltgeschichte, da cui abbiamo preso le mosse. Ranajit Guha, il fondatore della scuola storiografica indiana dei «subaltern studies»[[Definito da Amrtya Sen «il più creativo storico indiano del XX secolo», Guha ha insegnato in diverse università in India, Gran Bretagna, Australia e Stati uniti. Già il suo primo lavoro, un’accurata ricostruzione delle origini intellettuali della riforma attuata nel 1793 dal Governatore generale del Bengala Lord Cornwallis che, istituendo il cosiddetto sistema del permanent settlement, si era proposta di creare in India una classe indigena di proprietari terrieri sul modello degli squires inglesi e di mettere ordine nel sistema delle imposte, aveva anticipato quel ruolo decisivo del «sapere coloniale» che sarebbe divenuto successivamente uno dei temi centrali degli studi postcoloniali (cfr. R. Guha, A Rule of Property for Bengal. An Essay on the Idea of Permanent Settlement [1963, New Dehli, Orient Longman Limited, 1982). È stato il curatore dei primi sei degli undici volumi della collana «Subaltern Studies» usciti tra il 1982 e il 2000 (gli indici di tutti i volumi si possono consultare alla pagina web http://www.lib.virginia.edu/area-studies/subaltern/ssmap.htm). Per un’introduzione ai «subaltern studies», si vedano R. Guha – G.Ch. Spivak, Subaltern Studies. Modernità e (post)colonialismo, a c. di S. Mezzadra, Verona, Ombre corte, 2002 e D. Chakrabarty, La storia subalterna come pensiero politico, in «Studi culturali», I (2004), 2, pp. 233-251., ha mostrato in un impegnato confronto critico con la filosofia della storia di Hegel come la rappresentazione del processo di mondializzazione dello spirito che costituisce per il filosofo tedesco il criterio di razionalità della storia stessa si fondasse nella sua opera sull’istituzione di un confine assoluto, parimenti temporale e spaziale. La linea di separazione tra storia e preistoria era in altri termini al tempo stesso la linea di separazione tra lo spazio della civiltà (l’Europa) e lo spazio della barbarie (i continenti già colonizzati o in procinto di esserlo)[[Cfr. R. Guha, History at the Limit of World-History, New York, Columbia University Press, 2002, in specie p. 43. Per un’introduzione ai «subaltern studies», si vedano R. Guha – G.Ch. Spivak, Subaltern Studies. Modernità e (post)colonialismo, a c. di S. Mezzadra, Verona, Ombre corte, 2002 e D. Chakrabarty, La storia subalterna come pensiero politico, in «Studi culturali», I (2004), 2, pp. 233-251.. Questo confine assoluto costituiva tuttavia per Hegel il motore della Weltgeschichte, ne assicurava la dinamicità nelle forme di una lotta titanica della storia contro la preistoria, ovvero dell’Europa, attraverso i suoi Stati, contro i «popoli senza storia»[[Il riferimento è all’importante lavoro di E.R. Wolf, L’Europa e i popoli senza storia(1980), Bologna, Il Mulino, 1990.: il confine era cioè costruito come assoluto precisamente per essere oltrepassato. L’espansione coloniale risulta così inscritta negli stessi presupposti epistemici della modernità europea.

Non v’è, evidentemente, molto di nuovo fin qui. Ma quello che la critica postcoloniale mette in discussione è la possibilità di articolare attorno a questo vettore spazio-temporale della Weltgeschichteun’immagine lineare e progressiva del tempo storico. Centrale, da questo punto di vista, è il concetto di «stadio di sviluppo»[[Cfr. R. Guha, History at the Limit of World-History, cit., p. 26 e soprattutto D. Chakrabarty, Provincializzare l’Europa (2000), trad. it. Roma, Meltemi, 2004., secondo cui, una volta «catturati» nel movimento della storia universale, gli spazi non europei sarebbero stati destinati a ripetere il percorso evolutivo affermatosi in Europa. «Prima in Europa e poi nel resto del mondo», insomma, per riprendere la formulazione offerta da Dipesh Chakrabarty nella sua fondamentale critica dello «storicismo» moderno[[Cfr. D. Chakrabarty, Provincializzare l’Europa, cit., p. 22.: mettendo in discussione questa formula, la critica postcoloniale determina uno spiazzamentodella storia moderna che appare assai più radicale e interessante di ogni semplice critica «culturalista» all’«eurocentrismo». Nel momento stesso in cui si riconosce nell’assoluto confine temporale e spaziale di cui si è detto a proposito di Hegel un presupposto affatto reale del moderno progetto coloniale europeo, su cui si sono retti concrete imprese di conquista e concreti sistemi di dominazione, si rintraccia anche, alla sua stessa origine, un movimento di ibridazione(termine chiave nel lessico postcoloniale, che si vorrebbe qui sottrarre a ogni uso ingenuamente «apologetico») che ne mostra in fondo l’impossibilità[[Cfr. H. Bhabha, I luoghi della cultura (1994), trad. it. Roma, Meltemi, 2001..

Se la modernità è il tempo della Weltgeschichte, lo scontro tra «storia» e «preistoria» – la tensione tra «omogeneità» ed «eterogeneità» da cui siamo partiti parlando del presente – ne costituisce fin dal principio il tema dominante, entro coordinate spaziali che non possono essere pensate altrimenti che come «globali». Quel che la critica postcoloniale mette in discussione è precisamente la possibilità di risolvere questa tensione e questo scontro entro una narrazione lineare, all’insegna di un progressivo distendersi di un insieme di norme di sviluppo dal centro del «sistema mondo» in formazione verso le «periferie».

Si badi: questa narrazione lineare, secondo cui la costituzione del sistema mondo viene appunto svolgendosi unilateralmente dal centro verso le periferie, è sostanzialmente condivisa sia dalle ricostruzioni apologetiche del colonialismo, che ne sottolineano il portato di «civilizzazione», sia da molte ricostruzioni critiche, che ne enfatizzano al contrario il carico di violenza e sopraffazione. Gli studi postcoloniali, o almeno alcuni studi postcoloniali, invitano a complicare lo stesso quadro analitico, considerando le colonie veri e propri laboratori della modernità[[Si veda A.L. Stoler – F. Cooper, Between Metropole and Colony. Rethinking a Research Agenda, in Id (eds), Transitions of Empire. Colonial Cultures in a Bourgeois World, Berkeley, University of California Press, 1997, pp. 1-56., e dunque affinando il nostro sguardo sul movimento inverso, che «retroagisce» dalle colonie stesse sul centro del sistema (sull’Europa prima, sull’«Occidente» poi), mostrandone appunto il carattere costitutivamente ibrido.

Si tratta di una lezione che ha precise conseguenze sia in termini storiografici sia in termini teorici. Valutare nel suo giusto peso quello che si è definito il movimento di retroazione dalle colonie sulla metropoli significa lavorare sulla base dell’ipotesi che, contro ogni teoria degli «stadi» di sviluppo, si possano rintracciare vere e proprie «anticipazioni coloniali» nella storia di dispositivi economici, sociali, politici che hanno giocato un ruolo essenziale nella definizione della modernità. Significa, per limitarci a un solo esempio, prendere sul serio l’origine coloniale del moderno sistema di fabbrica, sviluppando le fondamentali analisi di Sidney W. Mintz sulla piantagione di canna da zucchero nelle Indie occidentali tra Cinque e Seicento[[Cfr. S.W. Mintz, Storia dello zucchero. Tra politica e cultura (1985), trad. it. Torino, Einaudi, 1990., e al tempo stesso riconsiderare la funzione essenziale che la schiavitù e le varie forme di lavoro coatto nelle colonie hanno svolto nel processo di costituzione del lavoratore salariato «libero» in Europa[[Si veda in questo senso l’importante lavoro di Y. Moulier Boutang, Dalla schiavitù al lavoro salariato (1998), trad. it. Roma, Manifestolibri, 2002. Nella prospettiva di una rilettura di alcuni testi classici prodotti all’interno dei movimenti anti-coloniali, su cui si veda il paragrafo seguente, conviene segnalare il vivavce dibattito attorno alle tesi avanzate da Eric Williams negli anni della seconda guerra mondiale: cfr. H. Cateau – S.H.H. Carrington (eds),Capitalism and Slavery Fifty Years Later: Eric Eustace Williams, a Reassessment of the Man and his Work, New York, Peter Lang, 2000..

3. Restiamo alle Indie occidentali. Robert J.C. Young ha sottolineato il nesso strettissimo tra postcolonialismo e anticolonialismo, insistendo da una parte sull’importanza fondamentale che le lotte anticoloniali, indipendentemente dalle vicissitudini dei regimi a cui hanno dato origine, hanno avuto nella genealogia del nostro presene «globale», dall’altra sull’opportunità di tornare a leggere, al di fuori di ogni mitologia «terzomondista», alcuni testi classici nati all’interno di quella esperienza storica[[Cfr. in particolare R.J.C. Young, Postcolonialism. An Historical Introduction, Oxford – Malden, Blackwell, 2001..

Si è fatto precedentemente cenno alla critica di Dipesh Chakrabarty allo «storicismo» moderno: si tratta di una critica assai raffinata, costruita attraverso un confronto serrato con motivi marxiani e hedeggeriani, su cui torneremo in seguito. Ma la fondamentale fonte di ispirazione del lavoro di Chakrabarty, molto presente in generale negli studi postcoloniali, è la critica corrosiva rivolta da Walter Benjamin sul finire degli anni Trenta del Novecento al concetto di progresso e al suo necessario correlato, all’idea cioè che «la storia proceda percorrendo un tempo omogeneo e vuoto»[[W. Benjamin, Sul concetto di storia, a c. di G. Bonola e M. Ranchetti, Torino, Einaudi, 1997, p. 45. Nella ormai sconfinata letteratura su questo testo, si segnala il prezioso volumetto di M. Löwy, Segnalatore d’incendio. Una lettura delle tesi Sul concetto di storia di Walter Benjamin (2001), trad. it. Torino, Bollati Boringhieri, 2004.. Lo «stato di eccezione» stava effettivamente avviandosi a divenire la regola in Europa, e lo sguardo di Benjamin, ebreo e marxista tedesco in fuga dal nazismo, non poteva che essere particolarmente sensibile a quella compresenza di progresso e catastrofe nella storia che era stata del resto uno dei temi fondamentali della sua riflessione negli anni precedenti.

Più o meno negli stessi anni, il marxista nero C.L.R. James, trasferitosi da Trinidad in Inghilterra, avviava un formidabile percorso di militanza politica e di ricerca storica che lo avrebbe condotto a divenire una delle voci più autorevoli del movimento panafricanista e un punto di riferimento fondamentale nel dibattito che attraversò i movimenti anticoloniali negli anni successivi[[Sull’opera storiografica di James, cfr. C.J. Robinson, Black Marxism. The Making of the Black Radical Tradition (1983), Chapel Hill – London, The University of North Carolina Press, 2000, pp. 241-286. Più in generale, si vedano i saggi raccolti in G. Farred (ed), Rethinking C.L.R. James, Cambridge, MA – Oxford, Blackwell, 1996.. È interessante leggere quanto James scriveva nel 1962, tracciando un provvisorio bilancio dei suoi lavori sulle Indie occidentali: il processo storico si configura in quest’area, fin dalle origini della modernità, «in un concatenamento di periodi non preordinati di lenta deriva, alternati a sprazzi di rivolta, a balzi in avanti e a catastrofi».

James riconduceva questo ritmo sincopato della storia, così diverso dal lineare progresso immaginato dal mainstream della filosofia moderna, proprio al prevalere in quell’area del mondo del sistema della piantagione di canna da zucchero, che «ha avuto sullo sviluppo delle Indie occidentali l’influenza più civilizzatrice e più corruttrice che si possa immaginare»[[C.L.R. James, Da Toussaint Louverture a Fidel Castro (1962), pubblicato in appendice a Id., I giacobini neri, trad. it. Milano, Feltrinelli, 1968, pp. 321-345, pp. 321 s. per le citazioni.. Più civilizzatrice e al tempo stesso più corruttrice, scriveva James: una compiuta modernità coloniale aveva già nel Settecento reso possibile la contemporaneità di modernità e catastrofe, in cui aveva fatto irruzione sul finire del secolo la novità storica assoluta di una vittoriosa rivoluzione di schiavi. A quella rivoluzione e al suo principale protagonista, Toussaint Louverture, James aveva dedicato nel 1938 un fondamentale volume, The Black Jacobins, divenuto rapidamente un classico all’interno del movimento panafricanista ma a lungo sostanzialmente ignorato dalla storiografia europea.

4. Nel 1790, pochi mesi prima dell’inizio dell’insurrezione a Santo Domingo, un colono francese scriveva alla moglie a Parigi, per rassicurarla a proposito delle condizioni di tranquillità in cui si viveva ai tropici: «non v’è alcun movimento tra i nostri Negri. [… Non ci pensano neppure, sono assolutamente tranquilli e obbedienti. Una rivolta tra loro è impossibile». Sono parole che si potrebbero commentare ironicamente, immaginando lo sbalordimento del colono di lì a poco, di fronte al fattodell’insurrezione degli schiavi. A me pare, tuttavia, più fruttuoso seguire l’argomentazione di Michel-Rolph Trouillot, uno dei maggiori storici haitiani, da tempo residente negli Stati uniti, che invita alla cautela: «quando la realtà non coincide con convinzioni profondamente radicate», scrive Trouillot in un libro molto importante, Silencing the Past, «gli esseri umani tendono a produrre schemi interpretativi che riconducono a forza la realtà all’interno di queste convinzioni. Escogitano formule che consentono loro di reprimere l’impensabile e di ricondurlo all’interno del discorso accettato»[[M.-R. Trouillot, Silencing the Past. Power and the Production of History, Boston, Beacon Press, 1995, p. 72..

Trouillot aggiunge che affermazioni come quella citata del colono francese «non si basavano tanto sull’osservazione empirica, quanto su una vera e propria ontologia, un’organizzazione implicita del mondo e dei suoi abitanti»[[Ivi, p. 73.: la convinzione che gli schiavi africani non fossero neppure in grado di immaginare la libertà, potremmo aggiungere, era una perfetta espressione di quel duplice confine – spaziale e temporale – attorno a cui di lì a poco Hegel avrebbe articolato la propria filosofia della storia universale. Non prima, del resto, di avere attinto ai fatti di Haiti per coniare una delle figure emblematiche della filosofia occidentale: la dialettica tra servo e signore[[Cfr. S. Buck-Morss, Hegel e Haiti. Schiavi, filosofi e piantagioni: 1792-1804 (2000), trad. it. in R. Cagliero – F. Ronzon (a cura di), Spettri di Haiti. Dal colonialismo francese all’imperialismo americano, Verona, ombre corte, 2002, pp. 21-59..

Trouillot non è uno studioso «postcoloniale» in senso stretto, ma le domande che pone sono perfettamente coerenti con alcuni dei temi più importanti che lo sviluppo della critica postcoloniale ha sollevato negli ultimi anni, e in particolare con l’insistenza di quest’ultima sulla dimensione «epistemica» del moderno progetto coloniale europeo, sulla vera e propria conoscenza coloniale che ne costituisce un elemento di strategica importanza[[Decisivo, da questo punto di vista, è stato – indipendentemente dalle molte critiche che gli sono state rivolte – il libro di E.W. Said, Orientalismo (1978), trad. it. Milano, Feltrinelli, 1999. Ma si tengano presenti almeno i saggi raccolti in N.B Dirks (Ed.), Colonialism and Culture, Ann Arbor, University of Michigan Press, 1992 e, specificamente sulla storiografia dell’«India britannica», il lavoro di R. Guha, Dominance without Hegemony. History and Power in Colonial India, Cambridge (Ma) – London, Harvard University Press, 1997.. Quel che era impensabile per i coloni francesi all’inizio del 1790, afferma Trouillot, è stato efficacemente silenziato dagli storici, attraverso molteplici strategie di rimozione o «trivializzazione» della rivoluzione di Haiti: l’analisi di opere così diverse come il Penguin Dictionary of Modern History e l’Età delle rivoluzionidi E.J. Hobsbawm consente in altri termini allo storico haitiano di mostrare come la storiografia abbia continuato a interiorizzare e a riprodurre il confine coloniale su cui si basava l’«ontologia» spontanea dei coloni francesi a Santo Domingo. E dunque lo conduce a offrire un perfetto esempio di quelle persistenze coloniali ben oltre l’età delle indipendenze nella cui analisi consiste il punto d’onore della migliore critica postcoloniale[[Si veda in questo senso l’importante saggio di E. Shohat, Notes on the Postcolonial, in «Social Text», 31/32 (1992), pp. 99-113. Ma per lo sviluppo di questo punto, si veda anche S. Mezzadra – F. Rahola, The Postcolonial Condition: A Few Notes on the Quality of Historical Time in the Global Present, in «Postcolonial Text», II (2005-2006), 1 (cfr. http://www.pkp.ubc.ca/pocol/index.php)..

Il riferimento alla dimensione «epistemica» del moderno colonialismo, l’enfasi posta fin dal principio di questo contributo sulle categorie «formali» di spazio e tempo, perdono qui ogni astrattezza e investono direttamente la pratica storiografica, dialogando con una pluralità di approcci che, dall’interno dei dibattiti disciplinari, hanno quantomeno problematizzato il preteso carattere «oggettivo» delle «fonti»: a venire in primo piano è l’ordine del discorso e dei silenzi che, espressione di precisi rapporti di forza e di potere, organizza l’«archivio» storico. Non si tratta necessariamente di derivarne il carattere meramente «retorico» della storiografia e di interrompere una volta per tutte il rapporto di quest’ultima con la «realtà storica»[[Per una critica di questo esito, certo non estraneo ad alcuni esponenti degli studi postcoloniali, cfr. C. Ginzburg, Rapporti di forza. Storia, retorica, prova, Milano, Feltrinelli, 2000. Considerazioni analoghe si trovano del resto in M.-R. Trouillot, Silencing the Past, cit., pp. XVIII s. e 12 ss.. Si tratta tuttavia, ancora con Trouillot, di essere consapevoli del fatto che, nelle stesse modalità di produzione di un evento in quanto evento storico, sono in gioco strategie di occultamento e di silenziamento: «qualcosa è sempre tralasciato mentre qualcosa viene registrato. Non c’è una perfetta chiusura dell’evento, comunque i confini di quell’evento vengano definiti. Dunque, ogni cosa che diviene un fatto lo diviene con le sue costitutive assenze, che sono proprie del suo stesso processo di produzione. In altri termini, i meccanismi stessi che rendono possibile la registrazione storica assicurano al tempo stesso che i fatti non vengano creati uguali. Essi riflettono un diverso controllo sui mezzi di produzione storica al momento stesso della prima iscrizione che trasforma un evento in un fatto»[[M.-R. Trouillot, Silencing the Past, cit., p. 49..

Il contributo che la critica postcoloniale può apportare alla storiografia attraverso la ridefinizione delle sue coordinate spazio temporali si colloca proprio su questo terreno, che è anche il «campo di battaglia per il potere storico»[[Ivi..

5. Questo campo di battaglia si determina precisamente, per riprendere un tema classico, nel punto in cui le res gesta, la storia intesa nella sua materialità processuale, si incontrano con la historia rerum gestarum, con la storiografia. Tra questi due piani esistono contemporaneamente una distinzione e una sovrapposizione irriducibili, in ultima istanza perché lo scarto tra quanto è accaduto e quanto viene raccontato è esso stesso storicamente determinato[[Cfr. ivi, pp. 3 s.: ha cioè a che fare con quei rapporti di forza e di potere che regolano l’iscrizione degli eventi nell’archivio – e dunque la possibilità di raccontarli.

Gli studi postcoloniali hanno contribuito in modo assai significativo, negli ultimi anni, a riaprire produttivamente questo problema classico della teoria storiografica. Il punto non consiste tanto (o soltanto) nella rivendicazione di nuovi spazi per una serie di «storie minori», in un tentativo di democratizzare in chiave «multiculturale» il canone storiografico, o magari di giocare le «storie» contro la «Storia». Non mancano certamente, all’interno degli studi postcoloniali, posizioni di questo genere[[Si vedano in questo senso le critiche di A. Dirlik, The Postcolonial Aura, Boulder, Westview Press, 1997 e Id., Postmodernity’s Histories. The Past as Legacy and Project, Lanham, Rowman & Littlefield, 2000.. Decisamente più interessante, a mio parere, è tuttavia la riflessione di quanti hanno rinvenuto proprio nella tensione tra la Storia e le «storie» un carattere strutturale della storia moderna, che nella condizione coloniale si staglia con particolare precisione e che non può comunque essere risolto giocando un termine contro l’altro.

È questa la via seguita da Dipesh Chakrabarty, in particolare nell’impegnato capitolo di Provincializzare l’Europadedicato a un confronto con la categoria marxiana di «lavoro astratto», che costituisce anche un bilancio del suo lavoro di storico della classe operaia in Bengala[[Cfr. in particolare D. Chakrabarty, Rethinking Working-Class History: Bengal 1890-1940, Princeton – Oxford, Princeton University Press, 1989.. Qui il problema del rapporto tra astrazione e «differenza storica» viene presentato come un problema generale della transizione al capitalismo (ma si potrebbe aggiungere: della «modernizzazione» in generale), in una prospettiva che tuttavia, e qui sta il punto decisivo, considera quella transizione mai conclusa, destinata per così dire a ripetersi ogni giorno.

Per dirla nei termini più semplici possibili: capitalismo e modernità, nell’economia come nella politica, sono contraddistinti dal primato dell’astrazione. Gli individui, scriveva Marx, «sono ora dominati da astrazioni, mentre prima essi dipendevano l’uno dall’altro»[[K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica (1857-1859), trad. it. Firenze, La Nuova Italia, 1978, 2 voll., vol. I, p. 107.. Questo primato tuttavia, nella cui istituzione consiste il momento genetico di capitalismo e modernità, deve essere sempre riaffermato. La critica dello stesso «storicismo» marxiano, in particolare per quel che concerne il rapporto tra «sussunzione formale» e «sussunzione reale» del lavoro sotto il capitale[[Cfr. D. Chakrabarty, Provincializzare l’Europa, cit., pp. 74 s., trova in fondo qui il suo punto di condensazione concettuale: lungi dal poter essere narrata linearmente, ad esempio nei termini di un passaggio dato una volta per tutte dalla «sussunzione formale» alla «sussunzione reale» del lavoro, la storia del capitale è continuamente interrotta dal violento riproporsi del problema della sua origine.

La categoria di lavoro astratto (l’«astratta generalità dell’attività produttrice di ricchezza», considerata nella sua «indifferenza verso il lavoro determinato»[[K. Marx, Lineamenti fondamentali, cit., vol. I, pp. 31 s.), da questo punto di vista, deve essere interpretata come una categoria pratica, performativa: «organizzare la vita sotto il segno del capitale significa agire come se si potesse astrarre il lavoro da tutti i tessuti sociali in cui esso si trova sempre incastonato e che rendono concreta ogni forma particolare di lavoro, compreso anche il lavoro di astrazione»[[Ivi, p. 80.. Il processo attraverso cui il lavoro astratto viene prodotto come «norma» del modo di produzione capitalistico, che è essenzialmente un processo di disciplinamento, non può mai concludersi una volta per tutte, e questo fa sì che la resistenza opposta all’astrazione dalla concreta molteplicità del «lavoro vivo» si installi al cuore del concetto e della logica del capitale, come «l’Altro del dispotismo» in essi implicito[[D. Chakrabarty, Provincializzare l’Europa, cit., p. 87..

Questa rilettura del concetto marxiano di lavoro astratto ha in realtà implicazioni che vanno ben oltre le categorie di capitale e lavoro. Essa offre piuttosto a Chakrabarty un vertice prospettico a partire dal quale rileggere la struttura del tempo storico nella modernità nel suo complesso. E questa struttura si presenta costitutivamente scissa: quella che Chakrabarty stesso chiama «storia 1», il tempo omogeneo e vuoto posto dal capitale, è necessariamente, in ognuno dei presenti la cui concatenazione costituisce il passato, interrotta nella sua linearità dal movimento di appropriazione della «storia 2», delle temporalità plurali che sono proprie non solo del «lavoro vivo» ma anche della merce e del denaro[[Ivi, pp. 93 s.. Le conseguenze che ne derivano sono a mio giudizio di grande importanza per spiazzare la stessa alternativa tra relativismo e universalismo: «nessun capitale globale (o locale) potrà mai rappresentare la logica universale del capitale, poiché ogni forma storicamente disponibile di capitale è un compromesso provvisorio costituito da una modificazione della storia 1 per mano delle storie 2 di qualcuno. In quel caso l’universale può esistere solo come casella vuota (place holder), che viene continuamente usurpata da un particolare storico che tenta di proporsi come universale»[[Ivi, p. 70..

Si tratta, come si accennava, di una posizione di grande rilievo dal punto di vista teorico, da cui possono venire spunti di notevole interesse per una riqualificazione del concetto e del lessico dell’universale[[Si vedano in questo senso le intelligenti considerazioni di E. Fornari, Subalternità e dissidio. Note filosofiche sul «postcoloniale», in «Studi culturali», II (2005), 2, pp. 329-339.. Ma contemporaneamente l’analisi di Chakrabarty ha precise implicazioni per la pratica storiografica. Invita a fare del movimento di riduzione del plurale delle storie al singolare della storia, in cui Reinhart Koselleck ha classicamente indicato il tratto peculiare del moderno concetto di storia[[Cfr. R. Koselleck, Futuro passato. Per una semantica dei tempi storici (1979), trad. it. Genova, Marietti, 1986, pp. 110-122., un fatto esso stesso storico. Non solo un concetto come quello di classe operaia, ma anche concetti come cittadinanza e nazione, sono attraversati nel loro stesso statuto logico dagli scontri, dalle contraddizioni e dagli squilibri che quel movimento produce. La violenza della conquista e della dominazione coloniale non fa che intensificare un problema inerente, per citare ancora Koselleck, a ognuno dei «singolari collettivi» che formano tanta parte delle parole della storia, portandone alla luce – e imponendo come specifico oggetto di ricerca storiografica – il movimento di costituzione.

Se questo ordine di riflessioni invita a problematizzare, come si è detto, il lessico dell’universalismo (e dunque i canoni storiografici che su di esso si sono materialmente costruiti), mi sembra che d’altra parte costituisca un sano antidoto alla proliferazione di una mera apologia delle «differenze». Mai definitivamente compiuta, la transizione che ha inaugurato nel segno della conquista la storia moderna come storia globale, ha tuttavia caratteri di irreversibilità: proprio la violenza dell’origine ha imposto «un «linguaggio comune» che annulla per sempre ogni esperienza di differenza che non sia stata mediata dalle relazioni di potere coloniali e dalla logica globale del capitale»[[F. Rahola, Differenze postcoloniali, in «Contemporanea», VI (2003), 1, pp. 157-165, p. 163.. Non si tratta, da questo punto di vista, di riscoprire ancestrali «tradizioni» da contrapporre – storiograficamente così come politicamente – alla modernità occidentale. Si tratta piuttosto di lavorare alla costruzione di un quadro più complesso della stessa modernità, di aprirsi certamente al riconoscimento di una pluralità di modernità determinate dalle diverse forme assunte in diversi contesti storici e geografici dall’incontro/scontro tra storia 1 e storie 2, per riprendere i termini di Chakrabarty, ma al contempo di valorizzare la cornice globale al cui interno questa stessa pluralità si è fin da principio collocata.

6. La critica allo «storicismo» proposta da Chakrabarty non ha dunque come suo esito una liquidazione semplice del problema del «progresso» e della sua specifica temporalità. Il tempo «omogeneo e vuoto» di cui parlava Benjamin è piuttosto riconosciuto come uno dei vettori fondamentali attorno a cui si articola la storia della modernità, materialmente incardinato nell’azione di precise potenze storiche (il capitale, gli Stati, gli Imperi). Ma la sua stessa affermazione non è possibile se non in un movimento di continua «ibridazione» con altre temporalità, strutturalmente eterogenee e «piene». Un discorso analogo può essere fatto per le coordinate spaziali della storia moderna: se lo spazio globale costituisce il necessario ambito di svolgimento della «storia 1», la produzionedi questo spazio non può essere pensata in termini lineari, ponendosi piuttosto come una cornice al cui interno è continuamente rideterminato il senso dei «luoghi» che sono coinvolti in quel processo di produzione.

Gli studi postcoloniali, da questo punto di vista, ci invitano a problematizzare i confini che organizzano le stesse mappe mentali degli storici. Portano alla luce movimenti diasporici e fitte trame di intrecci – a un tempo locali e globali – che collegano in modo imprevisto spazi apparentemente distanti tra loro, disegnando una vera e propria «contro-geografia» della modernità[[Cfr. J. Clifford, Strade. Viaggio e traduzione alla fine del XX secolo (1997), trad. it. Torino, Bollati Boringhieri, 1999, in particolare il cap. 10 («Diaspore»).. Dove la stessa storiografia radicale vede processi chiaramente perimetrati da stabili confini nazionali (la «formazione della classe operaia inglese», per riprendere il titolo della classica opera di E.P. Thompson), la critica postcoloniale intravede le tracce di un «placido nazionalismo culturale», che ha condotto ad esempio, nel caso della history from below britannica,a rimuovere la dimensione atlanticain cui quegli stessi processi si sono dipanati[[Cfr. P. Gilroy The Black Atlantic. L’identità nera tra modernità e doppia coscienza (1993), trad. it. Roma, Meltemi, 2003, p. 51 nonché M. Mellino, Quale prospettiva per i «Cultural Studies»? Conversazione con Paul Gilroy, in «Studi culturali», I (2004), 1, pp. 167-189. Ma si tenga presente anche P. Linebaugh – M. Rediker, I ribelli dell’Atlantico. La storia perduta di un’utopia libertaria (2000), trad. it. Milano, Feltrinelli, 2004..

Proprio il lavoro di Paul Gilroy sull’«Atlantico nero» come «controcultura della modernità» è in questo senso esemplare. Segnato in modo indelebile dalla catastrofe del middle passage, lo spazio atlantico non è stato tuttavia per i neri soltanto spazio di sofferenza e di morte. Con tipica mossa postcoloniale, Gilroy ricostruisce piuttosto le modalità complesse con cui quello spazio è stato percorso a ritroso – e letteralmente reinventato – dai neri stessi, come marinai e come viaggiatori. Le culture nate all’interno dell’Atlantico nero portano lo stigma della violenza e della schiavitù, ma esprimono anche – sia pure in modo frammentario – un anelito di liberazione irriducibile ai «codici chiusi di qualsiasivisione assolutista o comunque costrittiva dell’etnicità»[[P. Gilroy The Black Atlantic, cit., p. 244..

Nello spazio di circolazione dell’Atlantico, insomma, la modernità ha precocemente mostrato il suo volto più catastrofico e ha contemporaneamente registrato il sorgere di radicali pratiche cosmopolite. Ancora una volta forzando gli archivi, queste ultime cominciano a essere fatte oggetto di ricerca storiografica, ad esempio in lavori come quello di Peter Linebaugh e Marcus Rediker sull’«Atlantico rivoluzionario»[[P. Linebaugh – M. Rediker, I ribelli dell’Atlantico, cit., modificando le stesse coordinate geografiche al cui interno viene letta una vicenda come la stessa rivoluzione di Haiti, che viene ora ricostruita nei termini di uno scontro sul significato della modernità in cui hanno avuto un peso fondamentale le pratiche dell’anti-schiavismo radicale maturate proprio nello spazio atlantico[[Si veda il fondamentale lavoro di S. Fischer, Modernity Disavowed. Haiti and the Cultures of Slavery in the Age of Revolution, Durham – London, Duke University Press, 2004..

7. Al centro del rinnovamento delle coordinate spazio-temporali della storia moderna che gli studi postcoloniali determinano sta evidentemente una questione ulteriore, ovvero la questione della concettualizzazione e della rappresentazione delle figure soggettive che hanno fatto esperienza della modernità in posizione subordinata e antagonista. Si è ricordata la critica di Gilroy nei confronti della ricostruzione della storia della classe operaia inglese proposta da E.P. Thompson. Ma lo stesso lavoro di Chakrabarty sul tempo storico affonda le proprie radici nella polemica – «fondativa» per l’intera esperienza dei subaltern studies – di Ranajit Guha contro la caratterizzazione del banditismo e delle rivolte rurali come «fenomeni pre-politici» proposta da E.J. Hobsbawm sul finire degli anni Cinquanta[[Cfr. R. Guha, Elementary Aspects of Peasant Insurgency in Colonial India (1983), New Dehli, Oxford University Press, 1997, in specie pp. 5-13.: era una concezione lineare della transizione al capitalismo quella che consentiva allo storico marxista inglese di ascrivere il monopolio della politica alle figure del cittadino e del proletario rivoluzionario, condannando all’irrilevanza rivolte e figure sociali, «non ancora» pervenute a quel grado di maturità storica. Il contesto coloniale costituiva evidentemente un severo banco di prova per questa concettualizzazione della politica e dei suoi soggetti, e gli storici dei subaltern studies ne derivarono alcune conseguenze di grande rilievo. La «contemporaneità del non contemporaneo» (gli elementi «arcaici» messi in gioco dalle rivolte contadine nello sfidare il dominio esercitato dal più «moderno» impero che la storia avesse conosciuto) diventava un problema teorico fondamentale. E lavorare attorno a questo problema consentiva di articolare una critica corrosiva delle stesse modalità con cui tempo storico e politica si erano saldate attorno a una specifica idea di progresso nel «marxismo occidentale».

La rivendicazione da parte di Guha della radicale politicità delle insurrezioni contadine nell’India coloniale poneva l’accento da una parte sul fatto che quelle insurrezioni costituivano risposte puntuali agli specifici rapporti di potere su cui si fondava il Raj britannico, dall’altra sul fatto che la stessa trasformazione delle strategie e delle tecniche di governo adottate dalle forze dominanti (l’amministrazione coloniale, ma anche i proprietari terrieri e le altre componenti delle «elite» indigene) non poteva essere intesa se non considerandola anche come specifica reazione alla persistenza di un movimento insurrezionale nelle campagne. La scoperta di un autonomo campo della politica «subalterna» nell’India coloniale ha dato un contributo fondamentale al rinnovamento della storiografia in materia, modificando profondamente, per fare un solo esempio, il modo di considerare il «nazionalismo» indiano[[Si veda ad esempio – oltre ai fondamentali lavori di P. Chatterjee, Nationalist Thought and the Colonial World. A Derivative Discourse, Zed Press, London, 1986 e Id., The Nation and its Fragments: Colonial and Postcolonial Histories, Princeton, Princeton university press, 1993 – il libro di S. Amin, Event, Metaphor, Memory: Chaury Chaura 1922-1992, Berkeley – Dehli, University of California Press – Oxford University Press, 1995..

Quel che mi interessa in questa sede discutere brevemente è tuttavia il significato stesso dei termini «subalterni» e «subalternità», di diretta ascendenza gramsciana. Conviene sottolineare che, fin dal primo volume della collana subaltern studies, i termini in questione hanno svolto una funzione essenzialmente polemica, denotando l’insieme dei soggetti la cui azione è stata a lungo disconosciuta da una storiografia che, nelle sue varianti coloniali, nazionaliste e marxiste, ha mantenuto secondo Guha una caratterizzazione marcatamente elitista[[Si veda in particolare R. Guha, A proposito di alcuni aspetti della storiografia dell’India coloniale (1982), trad. it. in R. Guha – G.Ch. Spivak, Subaltern Studies, cit., pp. 31-42.. Utilizzati in riferimento al contadino protagonista delle rivolte anti-coloniali nelle campagne indiane dell’Ottocento, i termini in questione vedono confermata la loro radice negativa, privativa per così dire: «la sua identità», scrive Guha del contadino indiano, «consisteva nella somma della sua subalternità. In altri termini egli imparava a riconoscersi non per via delle proprietà e degli attributi della sua propria esistenza sociale, ma per via di una diminuzione, se non di una negazione, di quelli dei suoi superiori»[[R. Guha, Elementary Aspects, cit., p. 18. .

La ricostruzione dei movimenti di soggettivazione, di conquista di soggettività, messi in atto da figure sociali definite in questi termini assolutamente negativi, non poteva che porre un gran numero di problemi sotto il profilo metodologico e teorico. D’altro canto, facendo della fine della subalternità il motivo dominante delle lotte anticoloniali, Guha ci offre un punto di vista particolarmente efficace per focalizzare uno dei caratteri politicamente salienti della condizione postcoloniale: il «fallimento storico della nazione di creare se stessa», che i subaltern studies si proponevano originariamente di studiare nel subcontinente indiano[[R. Guha, A proposito di alcuni aspetti della storiografia dell’India coloniale, cit., p. 39., trova nella riproduzione di condizioni di subalternità – di negazione radicale di parola e agency politica – ben oltre la fine formale del colonialismo il proprio terreno privilegiato di verifica.

È un problema ben lungi dal riguardare soltanto i territori che sono stati storicamente sottoposti a dominio coloniale. A me pare anzi che il problema della subalternità si stia riaprendo anche all’interno di quelle che furono le «metropoli», come mostrano ad esempio i dibattiti degli ultimi anni sull’underclass o sulla «biopolitica» (tema di cui sarebbe interessante ricostruire la genealogia coloniale, sorprendentemente rimossa dallo stesso Foucault[[Per un primo affondo sul problema, cfr. A.L. Stoler, Race and the Education of Desire: Foucaults History of Sexuality and the Colonial Order of Things, Durham, NC – London, Duke University Press, 1995.). È in fondo un altro dei molteplici modi attraverso cui, per riprendere il titolo di un testo che ha avuto un grande impatto sullo sviluppo degli studi postcoloniali, the empire strikes back[[Centre for Contemporary Cultural Studies, The Empire Strikes Back. Race and Racism in 70s Britain (1982), London – New York, Routledge, 1994.. Quelle che sono state a lungo le norme attorno a cui è stata pensata e praticata la stessa politica emancipativa – per semplificare: la cittadinanzae la classe operaia – sono investite da potenti movimenti di decentramento e di ibridazione che paiono metterne in scacco la portata progressiva. Una genealogia del presente che, come quella a cui alludono gli studi postcoloniali, mostri l’intensità delle battaglie che si sono combattute attorno alla condizione di subalternità, può allora rivelarsi un’impresa di valore tutt’altro che meramente antiquario.

8. «Ciò che è mio», scriveva nel 1939 il grande poeta martinicano Aimé Césaire nel Cahier d’un retour au pays natal, «è un uomo solo imprigionato di bianco/è un uomo solo che sfida le urla bianche della morte bianca/(TOUSSAINT, TOUSSAINT LOUVERTURE)»[[A. Césaire, Diario del ritorno al paese natale. Poema (1939), trad. it. di G. Benelli, Milano, Jaca Book, 2004, p. 61..

A distanza di un solo anno dalla pubblicazione del libro di C.L.R. James sulla rivoluzione haitiana, il nome di Toussaint Louverture irrompeva (letteralmente) in un altro testo destinato a esercitare una grande influenza nei movimenti panafricanisti e anticoloniali degli anni successivi. Vale la pena soffermarsi brevemente a considerare gli aspetti formali del brano citato. La parentesi e le lettere maiuscole indicano chiaramente come soltanto un brusco cambiamento di ordine discorsivo possa interrompere la linearità di una narrazione che fa di Toussaint «un uomo solo imprigionato di bianco». Il riferimento di Césaire è alla cella del Castello di Joux, nelle montagne del Giura francese, in cui il «console nero», imprigionato per ordine di Napoleone, trovò la morte nell’aprile del 1803, pochi mesi prima della capitolazione dei francesi di fronte al generale Dessalines e della proclamazione dell’indipendenza di Haiti[[Su Toussaint Louverture si veda anche la ricca e accurata introduzione di S. Chignola a F.D. Toussaint Louverture, La libertà del popolo nero. Scritti politici, Torino, La Rosa, 1997, pp. IX-LIII.. Ma la prigione bianca è anche, più in generale, la prigione di una storia in cui la voce dell’insorto anti-coloniale, pur potente (letteralmente maiuscola), è anche sempre elisa, posta tra parentesi appunto.

I versi di Césaire diventano così una straordinaria anticipazione poetica di quel metodo «contrappuntistico» con cui nel 1993 Edward Said invitava a rileggere il canone letterario e storiografico dominante (l’«archivio della cultura»), per portare alla luce «narrazioni alternative o nuove». Si trattava per Said di accostarsi alle fonti «occidentali» «con la percezione simultanea sia della storia metropolitana che viene narrata sia di quelle altre storie contro cui (e con cui) il discorso dominante agisce»[[E.W. Said, Cultura e imperialismo. Letteratura e consenso nel progetto coloniale dell’Occidente (1993), trad. it. Roma, Gamberetti, 1998, p. 76.. Valorizzare questa indicazione metodologica significa assumere come punto di partenza da una parte il fatto che gli archivi e le fonti coloniali, nonostante la logica imperiale che ne governa la costituzione, rechino comunque inscritta la parola dei «subalterni»; dall’altra parte significa rinunciare alla possibilità di ascoltare direttamente quella parola, di restituire limpida la «voce» dei subalterni stessi. Quando quest’ultima non è infatti «silenziata», essa è comunque disconosciuta, rintracciabile attraverso i sintomi che la logica del disconoscimento residua nell’ordine del discorso dominante[[Rimando ancora all’importante lavoro di S. Fischer, Modernity Disavowed, cit..

In un saggio ormai celebre del 1984, Gayatry Chakravorti Spivak rimproverò a Guha, e in generale ai primi volumi prodotti dal collettivo dei subaltern studies, precisamente un’ingenua fiducia nella possibilità di recuperare la «voce» dei «subalterni» dall’interno degli archivi coloniali, facendo giocare le provocazioni della decostruzione contro quello che le appariva un residuo di «umanesimo»[[G.Ch. Spivak, Subaltern Studies: decostruire la storiografia (1984), trad. it. in R. Guha – G.Ch. Spivak, Subaltern Studies, cit., pp. 103-143.. Sviluppando ulteriormente questa critica attraverso un’analisi del sati (il sacrificio rituale delle vedove, dichiarato illegale dal governatore generale Lord Bentinck nel 1829, con il plauso di intellettuali indiani «illuminati» come Ram Mohan Roy), Spivak giunse anzi a dare una risposta negativa alla domanda se il subalterno – o meglio la subalterna – possa parlare[[Si veda G.Ch. Spivak, Can the Subaltern Speak?, in L. Grossberg – C. Nelson (eds), Marxism and the Interpretation of Culture, Urbana – Chicago, University of Illinois Press, 1988, pp. 271-313.. La violenza epistemica su cui si fonda la dominazione coloniale, contaminandosi – nel momento stesso in cui le sottopone a critica – con le «tradizioni» locali, finisce per cancellare efficacemente «lo spazio della libera volontà, della agency del soggetto sessuato come femminile»[[G.Ch. Spivak, Critica della ragione postcoloniale. Verso una storia del presente in dissolvenza (1999), trad. it. Roma, Meltemi, 2004, p. 248..

Il tentativo di Guha, condotto attraverso strumenti metodologici derivati dalla linguistica strutturalistica (e in particolare dai primi lavori di Roland Barthes), era stato in realtà precisamente di leggere in modo «contrappuntistico» quella che lui definiva la «prosa della controinsurrezione» (ovvero gli archivi e le fonti coloniali) per rintracciarvi gli indizi di una presenza altra e perturbante rispetto a quella inevitabilmente «imperiale» dell’io narrante[[Si veda in particolare R. Guha, La prosa della contro-insurrezione (1983), trad. it. in R. Guha – G.Ch. Spivak, Subaltern Studies, cit., pp. 43-102.. Il suo lavoro resta a mio giudizio un contributo fondamentale, di cui andrebbe anzi rivendicata la classicità, sia sotto il profilo metodologico sia sotto il profilo della pratica storiografica. Le considerazioni critiche di Spivak, tuttavia, ci aiutano a individuarne un limite effettivo: proprio mentre Guha poneva in discussione le modalità canoniche di rappresentazione storiografica delle soggettività «subalterne», finiva per recuperare dalla stessa storia dei movimenti anticoloniali indiani un presupposto «romantico-populistico» che lo conduceva a sovrapporre un soggetto (e una coscienza) sempre già formati al campo di battaglia sulle forme stesse della soggettività che la sua stessa analisi portava alla luce.

Dipesh Chakrabarty, che ha individuato recentemente in questa radice romantica e populistica uno degli «errori» fondamentali dei subaltern studies, ha altresì sostenuto che esso contiene la possibilità di un «nuovo inizio» per chi voglia dedicarsi a «scrivere una storia del soggetto di massa della politica oggi»[[D. Chakrabarty, La storia subalterna come pensiero politico, cit., pp. 243 s.. A meno di non voler concedere al discorso coloniale, come ha scritto Lata Mani, «ciò che in realtà non ha mai ottenuto, ovvero la cancellazione delle donne»[[L. Mani, Cultural Theory, Colonial Texts: Reading Eyewitness Accounts of Widow Burning, in L. Grossberg – C. Nelson – P.A. Treichler (eds.), Cultural Studies, New York – London, Routledge, 1992, pp. 392-407, p. 403., questo «nuovo inizio» non può tuttavia collocarsi nello spazio che sembrerebbe aperto da una lettura unilaterale dei saggi di Spivak precedentemente richiamati. Lo stesso dibattito femminista postcoloniale, al cui interno il contributo di Spivak ha svolto un ruolo fondamentale, ha avuto del resto negli ultimi anni come proprio tema fondamentale, ricco di implicazioni tanto dal punto di vista teorico quanto dal punto di vista storiografico, proprio la critica di una rappresentazione stereotipata delle donne subalterne del «terzo mondo» come mere vittime di dispositivi di assoggettamento e riduzione al silenzio: la scoperta della «complicità» dello stesso femminismo emancipazionista occidentale nel definire questa rappresentazione – ancora una volta letta come indice di un ritardo storico rispetto all’Occidente – ha rappresentato la condizione a partire dalla quale altre esperienze e altre parole hanno guadagnato spazio nel dibattito femminista internazionale[[Cfr. ad es. Ch.T. Mohanty, Feminism Without Borders. Decolonizing Theory, Practicing Solidarity, Durham and London, Duke University Press, 2003. Ma si veda soprattutto S. De Petris, Tra agency e differenze. Percorsi del femminismo postcoloniale, in «Studi culturali», II (2005), 2, pp. 259-290..

È l’implicazione della soggettività dei subalterni in un campo di tensione in cui gli stessi dispositivi di assoggettamento e riduzione al silenzio sono sempre costretti a fare i conti con una molteplicità di pratiche che possiamo provvisoriamente definire di soggettivazione (pratiche di rivolta certo, ma anche di sottrazione, di fuga, di «mimetismo», di negoziazione) il problema fondamentale che gli studi postcoloniali consegnano sia alla teoria politica sia alla storiografia. Il punto di vista che ne risulta non è necessariamente in contraddizione con l’accento posto da altre correnti di studi sui caratteri «sistemici» che la storia moderna assume fin dagli inizi in quanto storia globale: ci consente piuttosto, per riprendere una suggestione benjaminiana, di spazzolare quella stessa storia «contropelo»[[W. Benjamin, Sul concetto di storia, cit., p. 31., di sovvertirne il canone, o meglio ancora di indagare i laboratori al cui interno quel canone è stato (e continua a essere) materialmente prodotto.